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Un tempo c’era un sasso nel centro della piazza, alto suppergiù quanto le gambe di un uomo e, piantato nel sasso, uno spesso e grosso chiodo di metallo lucido. C’era un pesante martello vicino al chiodo, a disposizione di chi voleva usarlo. Chiunque ne avesse voglia poteva colpire il chiodo cercando di conficcarlo sempre più nella pietra.
Per quasi ottant’anni, quelli che lo desideravano, passando colpivano il chiodo.
Chi aveva il cuore greve roso dall’ira colpiva con tutta la forza e ci metteva dentro anche il suo peso. E il ferro colpito sprizzava scintille.
C’era chi lo faceva per gioco e il suo colpo rimbalzava gioioso sulla testa del chiodo. Lo colpivano i bambini, che quasi non riuscivano a sollevare il martello. I violenti lo percuotevano sbieco, come a scalzarlo, ma il metallo durissimo non si piegava e il manico del martello vibrava e faceva male alla mano. Le donne infelici davano decine di martellate fino a non riuscire più a muovere il braccio. Gli invidiosi andavano lì quando non c’era nessuno e vibravano piccoli colpi per non farsi sentire, gli accidiosi facevano finta di colpirlo quando la piazza era piena. I ragazzi lo facevano una volta a testa per mettersi in gara e poi con il centimetro misuravano chi l’aveva confitto più a fondo. I diffidenti si portavano il martello da casa.
Era diventato un po’ il simbolo della città quel chiodo. Una volta durante la guerra ci avevano trovato un tedesco morto su quel sasso, sdraiato a faccia in giù con il chiodo piantato nel cuore e negli anni sessanta, mentre facevano i lavori del palazzo di fronte, era caduta una putrella di ferro dal tetto dritta dritta sul chiodo e aveva fatto un suono che era sembrato il gong di un tempio buddista che l’avevano sentito fino al paese vicino.
Ogni tanto un piccolo uccello veniva a posarsi sul chiodo e i fotografi facevano a gara a ritrarlo e ad esporre quegli scatti nelle vetrine dei propri laboratori. Uccelli in bilico sulla testa del chiodo con i becchi appuntiti in controluce e il campanile della cattedrale che faceva capolino da un lato. Si trova ancora qualche foto così, a cercarla per bene.
Un colpo oggi ed uno domani, in ottant’anni il lungo chiodo era quasi scomparso dentro la roccia. Una leggenda diceva che quando il chiodo sarebbe stato tutto piantato la città sarebbe stata distrutta dall’inondazione del fiume.
Poi d’un tratto successe una cosa.
Qualcuno portò via il martello e al suo posto lasciò una grossa tenaglia.
Dal giorno seguente ogni passante che ne aveva voglia, cercò di estrarre il chiodo, come fosse la cosa più ovvia.
I presuntuosi con una mano sola. I volitivi salendo in piedi sulla roccia e facendo forza sulle gambe, paonazzi in volto. I collaborativi in due o in tre, tirando tutti insieme e unendo i propri mugolii. I rabbiosi a strappi, i persuasivi imprimendo alle tenaglie oscillazioni a destra e sinistra accompagnate da esortazioni tipo “Vieni” o “Dai”, i depressi in ginocchio, i furbi cercando di fare leva sulla pietra. Sembrava che un poco alla volta, di millimetro in millimetro, il chiodo uscisse e la sua testa si allontanasse impercettibilmente dal sasso. Venivano da lontano a vedere questa attrazione e i visitatori più forti ce la mettevano tutta per provare a tirarlo fuori di lì. Come una specie di spada nella roccia nostrana.
C’era chi diceva che quando il chiodo sarebbe stato estratto la città sarebbe stata distrutta dal terremoto.
Poi un anno fa il comune ha iniziato i lavori di ristrutturazione della piazza. E’ arrivata una grossa ruspa, ha sollevato la pietra con tutto il suo chiodo, l’ha caricata su un camion e l’ha portata via.
Al suo posto è comparsa una bella fontana.
Alcuni cittadini hanno trovato che si trattasse proprio di una bella fontana. Altri hanno trovato che fosse un obbrobrio.
E tutti hanno scordato la pietra col chiodo.