Non siamo obbligati ad amare nessuno, su questo credo possiamo essere tutti d’accordo. Se si accetta che i presupposti indispensabili del sentimento che chiamiamo amore siano la libera scelta e il disinteresse, è chiaro che in questo campo non può essere contemplato nessun obbligo e nessun tornaconto.
Eppure pare ci sia un’eccezione, che esista qualcuno che tutti concordano sia assolutamente ineludibile amare. No, non è la mamma, nemmeno per lei ci si spinge a contemplare l’obbligo, ma qualcuno che frequentiamo ancor più assiduamente.
Noi stessi.
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Legioni di psicologici di ogni orientamento lo ripetono ogni giorno: se non si passa attraverso questa precondizione doverosa e indispensabile, amare sé stessi, non si potrà mai dare autentico amore agli altri. La vita inoltre, se non ha come presupposto questo auto-amore, sarà sommamente infelice e quindi amarsi è presupposto di felicità. Amore non solo obbligato quindi, ma anche vantaggioso, cioè interessato.
Di solito l’argomento che viene addotto per sostenere la giustezza di questa sorta di utile dovere è il seguente: se non sappiamo amarci (inutile cercare di capire di preciso in che senso viene usata questa parola complessa perché è immediato il sospetto che si voglia chiamar così nient’altro che una sorta di autotutela-difesa dei propri bisogni) ci frustriamo e l’amore che crediamo di dare vien fuori storto, asimmetrico, ricattatorio, recriminatorio, dipendente, possessivo finendo per far male e concludersi peggio. Altre volte per fondare eticamente questo invito all’amor sui si invoca una sorta di principio della reciprocità modificato: “bisogna riservare a sé stessi il più premuroso dei trattamenti, così come si deve fare con gli altri” oppure al rovescio “come non è giusto maltrattare gli altri, trascurarli, rimproverarli e disprezzarli, allo stesso modo non è giusto comportarsi così verso sé stessi”. Seguono consigli pratici per imparare ad amarsi.
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Ora, si può anche accettare che il primo principio che regola l’etica umana: “non fare agli altri quello che non eccetera” (o “fai agli altri quello che eccetera”) possa rovesciarsi in “non fare a te stesso quello che non vorresti fosse fatto agli altri” cioè che sia reversibile. Fingiamo che si possa dare per buono che questa norma che fonda i rapporti tra gli individui venga usata per regolare il rapporto che l’uomo ha con sé stesso assimilandolo a quello che ha con un soggetto esterno. Che non si voglia vedere che il principio di reciprocità si fonda sull’idea che l’essere umano avvantaggi naturalmente sé stesso e si riservi sempre un trattamento di favore (tanto da invitarlo a evitare questa disparità quando si rapporta col povero prossimo suo) mentre qui stiamo presupponendo il contrario e cioè che l’uomo sia portato a trattarsi male e a odiarsi così spesso da dovergli ricordare di non trattarsi peggio di quanto non faccia con gli altri. Che si possa saltare a piè pari la tentazione del dileggio del comandamento che ne consegue che suonerebbe più o meno come “Ama te stesso come il prossimo tuo” (legioni di suicidi, coorti di masochisti, stuoli di autolesionisti) e che si arrivi a concedere, alla fine, che i meccanismi psichici dell’essere umano a cui ci stiamo riferendo siano meglio studiati e compresi di quanto fosse vero cinque o sei secoli prima di Cristo.
Ma anche volendo ammettere tutto questo, resta che una cosa è non nuocere e trattare con giustizia e una cosa è amare. Amare, provare trasporto, affetto, dedizione, stima, sentire il bisogno dell’altro, godere della sua presenza.
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Sarebbe interessante capire quale altra ragione, oltre all’obbligo di convivenza, dovrebbe farci scegliere la persona che incarniamo per dedicarle il nostro amore. Per quale motivo, se non per il nostro tornaconto, si dovrebbe necessariamente passare dal rispetto e dalla correttezza che a tutti sono dovuti, nientemeno che all’Amore.
Conoscersi e sapersi valutare è un atto di realtà e la presa di coscienza dei nostri pregi e dei nostri difetti un passaggio necessario per rapportarci in maniera equilibrata col mondo. Ma che l’identikit che ne viene fuori, l’immagine che ci facciamo di noi stessi, trascurando il fatto che sia o non sia veritiera, debba per forza piacerci, anzi di più, debba suscitare il nostro amore, anzi di più ancora, l’amore primigenio da cui ogni altro amore discenderà, questo, mio dio, non sta in piedi da nessun punto di vista. Non da un punto di vista della logica e non da quello della natura stessa del sentimento che chiamiamo amore. Sarebbe come dire che corre l’obbligo al carcerato, che non ha scelto la propria condizione e non la può cambiare, di amare la propria cella. Non di tenerla in ordine e pulita ma di amarla. Sarebbe come dire che le caratteristiche intime della propria persona che ognuno lentamente impara a conoscere, debbano sempre magicamente coincidere con quelle che prediligiamo e che suscitano in noi stima e amore. Non molto credibile onestamente. Più probabile che quando ci si rapporta con sé stessi si sia più propensi a fare “di necessità virtù” e adattarsi, provando a farsi piacere quello che passa il convento. L’antitesi dell’amore, in poche parole.
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Si potrebbe obiettare che il comandamento che prescrive l’amore per sé stessi, l’amor proprio, è in realtà da intendersi più come un divieto ad odiarsi, un invito a perdonarsi più che come un’esortazione ad amarsi in senso letterale. Ecco, detta così sarebbe già un po’ meglio: “non odiarti” sarebbe una prescrizione un po’ più credibile. Ancor meglio forse sarebbe, per essere più realisti, “odiati meno che puoi e comunque solo quando non puoi farne a meno, cioè odiati solo quando te lo meriti e poi cerca di non meritartelo più e sappiti perdonare”. E invece nossignore, l’imperativo per l’autosalvezza non si limita a prescrivere di non farsi torto ma invita specificamente a coccolarsi, vezzeggiarsi, autoabbracciarsi, credere e aver fiducia in sé stessi, stimarsi, “volersi bene”. Così recitano le istruzioni per essere felici che popolano i vademecum ad uso degli infelici.
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Ed eccolo alla fine l’undicesimo comandamento se fosse inverato: ognuno dei miliardi di individui di questo mondo, ognuno con le sue peculiari caratteristiche, saprà invariabilmente trovare la propria persona, con i suoi pregi e le sue debolezze, sufficientemente bella e desiderabile da suscitare in lui Amore. Non comprensione o compassione, non indulgenza ma Amore. L’incostante, il meschino, l’ipocrita, il pigro, l’avaro forse disapproveranno queste caratteristiche nelle persone in cui le riscontrano e, anche senza volerle odiare, certo mai potrebbero innamorarsi di loro ma gli stessi tratti, riconosciuti in sé stessi, non costituiranno il minimo ostacolo all’auto-amore dovuto e necessario.
No, mi spiace, se è vero che l’amore per l’altro è già un fiore miracoloso che spunta a fatica tra le pietre e le spine, l’amore per sé, quand’anche esista, non può che costituire deroga alla regola, anomalia assoluta.
L’eccesso di conoscenza, la tendenza dei soggetti alla mistificazione e alla reciproca menzogna, le prevedibili questioni d’interesse, l’inevitabile opportunismo, tutto fa sì che mai e poi mai una agenzia matrimoniale seria sceglierebbe di far incontrare due candidati alle nozze come Sé stesso e Sé. Forse, nella convivenza forzata con noi stessi, un atteggiamento civile e una educata sopportazione dovrebbero essere considerati già un gran traguardo. D’altronde il sé, come i parenti, non si sceglie e tocca tenerselo com’è finché morte non ci separi.