Anno 1988: durante una pausa del processo “Moro-ter” il terzetto Curcio-Moretti-Balzerani viene intervistato per la Rai da un giovane Ennio Remondino.
Il documento è stranoto: i tre brigatisti colgono l’occasione per dichiarare pubblicamente la fine dell’esperienza della lotta armata e avanzare una sorta di proposta per chiudere “politicamente” quella stagione.
É ancora utile riascoltare oggi quella testimonianza, facilmente reperibile in rete, se non altro per comprendere qualcosa del punto di vista dei brigatisti sul periodo che si era chiuso alle loro spalle e lo aveva fatto da un pezzo, senza attendere il loro permesso.
Curcio, già in carcere da dodici anni, prende la parola e articola il suo discorso essenzialmente in tre punti: 1) la lotta armata non nasce da sola ma si sviluppa in un preciso contesto, quello delle lotte operaie e studentesche, contesto che la spiega e la giustifica; 2) anche se le persone che sparavano erano poche centinaia in realtà rappresentavano vasti strati del movimento, pezzi tutt’altro che marginali che chiedevano di innalzare il livello dello scontro conferendo a chi agiva una sorta di tacito mandato; 3) l’esperienza può dirsi conclusa perché il movimento è stato sconfitto ma, visto che si è trattato di un fenomeno così vasto ed epocale è necessaria una soluzione “politica“ (libertà ai prigionieri eccetera eccetera), necessità che si pone per poter sanare le conseguenze di quegli eventi che costituiscono un problema impossibile da ignorare.
Ora, nello sguardo retrospettivo a questo fenomeno complesso che chiamiamo lotta armata si possono usare due approcci differenti. Uno è quello, chiamiamolo così, di principio: si parte dal ripudio della violenza in ogni sua forma, si ribadisce l’inaccettabilità del suo uso nello scontro politico democratico per affermare infine che i brigatisti erano nient’altro che assassini perché nulla può giustificare il ferimento o l’omicidio come mezzi, quale che ne sia lo scopo.
Che per carità.
Solo che questo mi è sempre sembrato il modo di spedire la palla in tribuna per metter fine alla partita, chiudere ogni discussione e insieme ogni comprensione, lasciando lì l’enormità dei fatti derubricata a questione di delinquenza comune.
Nella generale mancanza di rielaborazione che forse è l’unica vera costante con cui il nostro Paese guarda alla propria storia, il passato diviene facilmente fonte di sentimenti (odio, nostalgia, mitizzazione, recriminazione, disprezzo, partigianeria) e quasi mai di analisi che ambiscano minimamente a essere obiettive. Alla fine lo si lascia quasi sempre lì, irrisolto, divisivo, incompreso, come se rileggerlo alla luce della ragione lo sottraesse all’arsenale mitologico che ci è indispensabile per giustificare la nostra incapacità di stare, da adulti, nel presente. I princìpi d’altro canto non sono mai buoni attrezzi per leggere la storia, sono strumenti di giudizio, non di comprensione e la comprensione non solo non è opzionale ma, al di là di quello che molti sembrano temere, non è nemmeno pericolosa e non è affatto destinata a divenire necessariamente giustificazione.
In questo caso il fatto spinoso è che il movimento politico culminato nel ’68 o almeno una buona parte di quel movimento, non aborriva la violenza, non era fatto di Ghandiani e pacifisti radicali. Per ognuna delle parti in causa la violenza politica era un’opzione percorribile e di fatto spesso percorsa anche se a livelli diversi.
In apparente coerenza con questa considerazione, assolutamente ovvia per tutti i contemporanei, Curcio, Moretti e Balzerani fanno intendere che la lotta armata non fosse altro che la naturale espressione di quel grande movimento di massa. Non è una affermazione da poco, non è la giustificazione di chi dice “siamo un po’ meno colpevoli perché eravamo in tanti” ma il tentativo di portare la responsabilità da una dimensione individuale ad una collettiva, cioè politica. La violenza non viene mai ripudiata, nemmeno a posteriori: a mettere in discussione quella modalità di lotta è solo il venir meno delle condizioni politiche che l’avevano generata e dell’appoggio di cui godeva o pensava di godere. Questo e solo questo l’ha resa una risposta inefficace alle problematiche che ambiva a risolvere.
Lo storicismo viene declinato nella sua solita forma che qui potrebbe suonare piú o meno così: “nelle condizioni date in quel preciso momento la violenza era una scelta condivisa, lecita e conseguente e quindi non può essere giudicata a posteriori, dalla distanza di una situazione totalmente diversa“.
Sia detto per inciso: questo approccio già tante volte incontrato che tende a pensare che la contestualizzazione sia tout court giustificazione, come se esistesse un determinismo tra le condizioni date e le azioni umane è, spiace ammetterlo, lo stesso che rifiutiamo quando gli avversari politici tentano di utilizzarlo a proprio vantaggio (i criminali nazisti, i dittatori, i carnefici che ubbidivano solo agli ordini, tutti quelli che hanno voluto dire “voi non c’eravate e non mi potete giudicare“) ma è anche comodo agli altri, a certe riletture che lo usano per criminalizzare un intero movimento come violento tout court o quantomeno della violenza complice e fiancheggiatore. Comunque, niente, andiamo avanti e fine dell’inciso.
Data questa premessa ne consegue la seconda asserzione che si può riassumere più o meno così: “pochi hanno avuto il coraggio e l’alto livello di coscienza di farsi soldati e lo spirito di sacrificio della clandestinità (l’avanguardia etc.) ma quei pochi agivano per conto di molti anzi di moltissimi”. Solo così può conseguire il terzo punto che è quello della proposta della soluzione politica con liberazione dei prigionieri, gente condannata a multipli ergastoli, proposta che si fa fatica a credere possa essere stata pensata come ricevibile se non si segue dall’inizio l’intero percorso mentale.
Ora, in questo percorso mentale direi che si manifesta appieno la contraddizione più grande, l’errore politico e di prospettiva più eclatante dei protagonisti della lotta armata: questo aver creduto di avere alle spalle moltitudini che approvavano ed avrebbero assolutamente voluto essere capaci di compiere quel tipo di azioni e che pensavano che la loro lotta si giovasse dei risultati ottenuti con le gambizzazioni e gli omicidi politici.
L’Italia dei due decenni ’60 e ’70 è un Italia percorsa da istanze profonde di rinnovamento, anche da istanze radicali, certamente, ma da qui a credere nell’esistenza di un vasta parte di popolo pronta ad appoggiare una rivoluzione socialista e una presa violenta del potere c’è di mezzo il mare. Aveva ben fresco, quell’Italia, il ricordo di una guerra civile non così lontana e i morti per le strade li aveva già visti e li ricordava ancora bene. Era un’Italia, per di più, che cambiava, dove il benessere che si andava diffondendo e i mille piccoli compromessi con cui il capitale strizzava l’occhio ogni giorno alle debolezze del proletario sempre meno duro e puro, i gadget, il consumismo, le vacanze di massa non facevano certo pensare che ci fossero moltitudini disposte alla guerra e alla rinunzia.
La più grave distopia di quelli che attendono spasmodicamente la rivoluzione è sempre la stessa: sopravvalutare le fiamme e ritenerle frettolosamente incendio. Il movimento degli operai e degli studenti desiderava certamente un cambiamento dello stato di cose esistente ma non al prezzo di piombare in una guerra civile che avrebbe sparso lutti e odî e sangue per strada.
Gli uomini delle brigate rosse sopravvalutano tragicamente sin dall’inizio l’appoggio popolare e del movimento e quando, moltissimi anni dopo, nell’intervista all’emozionato Remondino, continuano a mostrare questo fraintendimento, danno tutta la prova del gigantesco errore di prospettiva storica che li aveva indotti ad iniziare il loro percorso quasi vent’anni prima.
D’altronde, come si potrebbe invocare, se non partendo da questa distorsione, una “soluzione politica“ per poche centinaia di persone detenute? Come se si trattasse di risolvere il problema degli ex fascisti nel ’46, come se le carceri traboccassero di combattenti rossi e la società fosse profondamente lacerata e spaccata rendendo indispensabile la grande amnistia, la riconciliazione nazionale.
Mio Dio, che rammarico il pensiero di tutte le vite gettate in nome di questi abbagli.
Eppure nel coro della riprovazione generale per quella stagione di lutti e nei commenti che accompagnano la scomparsa, uno dopo l’altro, dei protagonisti di quegli anni, ci sono cose che non si possono fare a meno di ricordare. Io ricordo bene, ad esempio, il giorno in cui è arrivata in classe la notizia del rapimento di Aldo Moro e non dimentico che molti di noi hanno esultato. Non ho scordato quanto le logiche estreme avessero la capacità di far breccia nel giovane cuore degli idealisti, la fascinazione che generava in noi l’estrema coerenza, il coraggio di mettere a repentaglio tutto per delle idee.
Certo, ricordo anche che dopo la fugace ubriacatura dell’ardimento e dell’enormità, in breve hanno cominciato a trasparire altre cose e ricordo come presto, a noi che eravamo poco più che ragazzini, sia stato chiarissimo che quella faccenda non era solo una faccenda in cui ci si faceva male, ma odorava anche di inganno. Che i corpi per terra in pose scomposte e insanguinate e i visi attoniti che li piangevano non sapevano di vittoria, non sembravano il risultato di imprese eroiche. Che il linguaggio che usavano i brigatisti e i loro epigoni era un linguaggio completamente autoreferenziale, che adottava categorie che non riconoscevamo nella nostra esperienza quotidiana. Come se nel mondo parallelo che aveva portato passaggio dopo passaggio a scegliere quella strada, non fosse più ammissibile guardarsi intorno, prendere le misure a una realtà che poteva far dubitare di un cammino che si era spinto troppo in là per contemplare un ripensamento.
D’allora giorno dopo giorno li abbiamo visti quei guerrieri andare uno a uno incontro al loro destino di morte o di galera come falene accecate nelle fiamme. Decimati dissociarsi, pentirsi o non pentirsi o come Barbara indossare i panni degli irriducibili, magari pure un po’ compiaciuti forse perché null’altro restava loro, ultimi dei mohicani sconfitti portatori della fiaccola di una rivoluzione che non fregava più a nessuno.
Ecco avrei voluto solo dire questo quando pochi mesi fa ho saputo della morte di Barbara Balzerani così come quando sono andati andati via via scomparendo i Germano Maccari, i Prospero Gallinari (Dio, il suo funerale di pugni chiusi alla Ken Loach!): che ho provato una grande malinconia. Malinconia per quelle vite di idealismi feroci, miopi e perduti, per quella “purezza”, mi si passi la parola, che in tanti hanno provato a negare per normalizzare una realtà scomodissima e non farci i conti. Ho provato sentimenti che bisogna far finta di non provare perché c’è il rischio che siano scambiati per vicinanza al terrorismo, simpatia per il diavolo, insensibilità per le vittime.
E avrei anche voluto dire che insieme alla malinconia per tutte quelle vite perdute avevo provato malinconia pure per noi, per me, capace allora di non aver torto ma comunque incapace di aver ragione, io, accorto a non schiantarmi contro i mulini ma orfano d’ideali che mi liberassero di me stesso, privo da sempre di una fede che mi trascendesse, io che senza aver seminato morti lascio comunque un mondo che non è migliore di come l’ho trovato e non sono nemmeno stato sconfitto dai cattivi, io e la mia vomitevole prudenza.
Sarà la nostalgia dell’assoluto ma questi vecchi assassini che se ne vanno via via illuminati dal loro passato tremendo, non domi, non pentiti mi sembrano così tanto superiori alla brava persona che ho cercato di essere, ma così tanto, da farmi male.
Questo avrei voluto dire e non ho detto. Come tutte le altre volte.
Pienamente condivisibile quanto scrive e sente.
Penso che ciò che risulta oggi “una sopravvalutazione e un fraintendimento d’allora”, ciò che evitò una guerra civile (e presumibili repressioni alla Pinochet) si debba al senso di responsabilità sulle masse che animava il sindacato (Luciano Lama e una organizzazione coesa e capillare) e il PCI (Berlinguer e un partito coeso ed una pari organizzazione capillare). Questo agire politico cambiò le prospettive individuali, soggettive, di masse di operai e studenti, della gente. Ciò impose la prudenza nella gestione dei conflitti, edulcorandone l’asprezza. Ciò ci fa apparire lo spirito d’allora come “frainteso” ma penso venne responsabilmente spento
Tanto di questo senso di responsabilità politica sulle masse, quanto della prudenza nella gestione dei conflitti a destra non se ne vide, né se ne vede, mai traccia. Tantomeno affermazione di consapevolezza. Da cui la riscrittura della strage di Bologna, l’assalto alla CGIL per il green pass … E non è una differenza trascurabile
Ti ringrazio, Grazia (mannaggia, suona male), ma insomma, grazie. Sì sono essenzialmente d’accordo con te e specialmente con questa differenza culturale-antropologica che tu sottolinei con la destra e la gestione della violenza politica della propria parte. D’altronde, di primo acchito, mi verrebbe forse superficialmente da dire che la violenza si accompagna spesso ma non è consustanziale alla “weltanschauung” di sinistra mentre, assolutamente, credo lo sia a quella di destra, alla sua narrazione del mondo e che anzi in qualche modo le sia fondativa.