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Non ho battuto ciglio leggendo ieri di un bislacco studio forse australiano che dimostrava come l’alimentazione vegetariana sia in realtà responsabile della morte di un maggior numero di poveri animali di quella del più carnivoro mangiatore di bistecche, del più crudele masticatore di carne di cuccioli, del più inveterato sterminatore di creature dagli occhi miti. Non mi sono stupito, non ho trasalito.
“Perché -mi domandavo questa mattina arrancando con la mia macchinina su per l’appennino alle sei e mezza del mattino- perché una notizia così gravida di implicazioni tremende come è l’impossibilità di vivere senza far male, non mi ha minimamente turbato?”. Eppure, se non esiste via di scampo alla legge della “mors tua vita mea”, se il nostro stesso esistere implica, e non solo per questioni di alimentazione, necessariamente la sofferenza o magari la morte di qualcun altro, allora la stessa possibilità di una vita che tenda al bene viene annullata. Se è impossibile vivere senza fare, anche involontariamente, del male, se la scelta è tra morire o nuocere, seppure in maniera indiretta, allora lo stesso esistere è una colpa. Ogni atto, ogni gesto, ogni respiro, ogni passo che compiamo inquina, toglie aria, toglie spazio, spaventa esseri inermi, schiaccia formiche, fa morire o soffrire creature umane e non. L’acqua che spreco, l’energia elettrica che uso, il cibo di cui mi nutro quasi sempre oltre il mio bisogno, le risorse che utilizzo e di cui mi approprio mentre digito sui tasti di questo computer.
Eppure, pur capendo il senso terribile di queste constatazioni, continuava a non muoversi nulla dentro di me che guidavo, nessuna vertigine mi prendeva mentre contemplavo l’ineluttabilità del male. Perché?
“ Perché io l’ho sempre saputo”, mi sono risposto.
Io come tanti altri della mia generazione che si sono posti molto presto il problema del bene e del male, quando confrontarsi con questi temi era un rito di passaggio obbligato tra l’infanzia e l’adolescenza, lo abbiamo capito quasi subito che l’innocenza non esiste. E da questa consapevolezza abbiamo derivato il sottile senso di colpa che accompagna la nostra vita. A volte è più forte, a volte è insopportabile, spesso è sopito e trascurabile. Ma noi lo sappiamo sempre e lo sappiamo bene che tutto in ogni momento merita questo sentimento. Levi ne fu divorato per il resto della vita per essere sopravvissuto ai molti, troppi che aveva lasciato nel campo. Senza una ragione, senza che fossero meglio o peggio di lui. Il giovane Serra si arruolò nella grande guerra, senza nemmeno entrare nel merito delle ragioni dell’intervento dell’Italia e lì trovò la morte poco più che adolescente (mente splendida inghiottita dal tritacarne del 15-18) e lo fece solo perché sarebbe stata per lui insopportabile la colpa di restare a casa mentre il mondo andava in fiamme. Karl Jaspers, che non aveva avuto alcuna connivenza con il regime nazionalsocialista, che era stato esonerato dall’insegnamento solo per il fatto di aver sposato un ebrea, che avrebbe potuto chiamarsi fuori facilmente dalle responsabilità di quel regime terribile, teorizzò la colpa di ogni tedesco e la sua stessa, solo per il fatto di appartenere a quel popolo. Questi uomini, nel loro senso di colpa dolente, sono testimoni di un sentire alto, che non si nasconde, che non chiude gli occhi alla sofferenza che è fuori da sé.
Io ho un fratello con cui ho condiviso ogni istante della mia infanzia. Poi un giorno, quando era ancora un bambino piccolo, lui si è ammalato di una malattia che non potrà mai guarire. Lui si è ammalato e io no. Non c’è mai stata una ragione perché questa cosa abbia risparmiato me e scelto lui. Eppure eravamo così simili, persino uguali ci vestiva mia madre. Sentirmi in colpa per questo non è un modo comodo per godermi indisturbato la mia fortuna. E’ un modo per ricordare quanto sia grande la mia fortuna e per non dimenticare mai quando sia grande e ingiusta la sua sfortuna.
“Frutto di un educazione catto giudaica” “autoflagellazione ipocrita” “il senso di colpa che uccide”. Le sento tutte le obiezioni possibili, le ho sentite per anni. Sono il mantra di quelli che pensano che la felicità si trovi attraverso la negazione di questa inevitabile tragicità. Ho amici che, sopraffatti da questo sentimento, hanno affrontato lunghi percorsi di analisi. Li ho rivisti, alla fine, a loro dire liberi dal mostro, leggeri, felici e irrimediabilmente tramutati in egoisti bastardi. Come se il senso di colpa si portasse in qualche modo attaccata la pietà e recidendo l’uno dal cuore non si potesse che perdere anche l’altra. E allora sapete che vi dico? Che io me lo tengo stretto il mio sottile senso di colpa catto giudaico. Senza farmi sopraffare ma me lo tengo. Perché sentirmi un pochino in colpa per il mio cibo mi aiuta a ricordare gli affamati, sentirmi in colpa per la mia salute mi aiuta a ricordare la sofferenza ingiusta che colpisce gli ammalati e sentire che è sempre un po’ rubata a qualcuno l’aria che respiro mi fa muovere in questo mondo come voglio muovermi. Chiedendo permesso. E non pensando che la storia fosse nell’attesa messianica della mia persona a cui tutto è dovuto come questo mondo spietato vorrebbe che noi fossimo ed educassimo ad essere i nostri figli. Come giovani futuri egoisti bastardi. Senza sensi di colpa. E senza pietà.