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Quando non ci sei mi struggo dalla voglia di te. Ti tengo fisso il pensiero addosso come un satellite spia, come un felino un canarino, come un neonato la mammella, come il penitente il crocefisso, come l’ubriaco il bicchiere, come lo psicotico il serenase.
Poi ti vedo e mi mostro distante.
Non c’è un corpo che scambierei col tuo corpo. Ognuno è il bozzetto impreciso e imperfetto del tuo, un fac simile, un post-it, una traccia, un memento, un’imitazione scadente che mi parla dell’originale che non posso avere perché tu lo tieni con te e lo porti distante.
Poi, quando potrei farlo, esito a prenderti.
Rimando il momento come si rimandano le cose che non si ha voglia di fare. E mi guardo lasciar scorrere un’altra occasione di averti che piangerò domani rimangiandomi ogni singolo istante che oggi sciupo come uno scialacquatore insensato.
Appena non ci sei non so più dove mettere le cose da dirti. Dovrei appuntarmele sulle mani, scrivermele sui fazzoletti, registrarle su una pista magnetica, inciderle nel marmo e nelle cortecce. Confeziono discorsi perfetti e geniali che non saprei ricordare. Costruisco stanze in cui accoglierti, rami sui cui farti posare, aria fresca che spira dal bosco da offrirti in bicchieri che bacerai respirando.
Quando sei di fronte a me taccio e mi pare che non ci sia niente da dire.
Quando penso a noi due insieme siamo sempre intenti a fare qualcosa. Come se non potesse restare senza frutto il nostro restare vicini. Cuciniamo, edifichiamo case, seminiamo verdura e fiori per l’estate, viaggiamo colmando distanze, ripariamo giocattoli, diamo un nome alla forma delle pozzanghere, torniamo e ripartiamo ancora, telefoniamo ai nostri sogni e li rassicuriamo, cerchiamo di meritarci di avere avuto piedi e mani e sogni da sognare.
Poi sono qui a guardarti mentre fuori c’è il sole e non so muovere un passo. Lascio che tu esca senza di me e desidero solo star solo.
Ti rivolgo due parole sgarbate.
Non sarai mai più così bella.
Litighiamo per nulla.
Mentre ti mangio con gli occhi.
E lo so perché ci sono due te. Quella che mi agita come una febbre e quella che lascio trascorrere. E due noi. Quelli che siamo e quelli che dimostriamo di essere ogni giorno mal impiegato.
Perché la felicità fa paura. E lasciarla entrare significa non avere più scuse.
Perché una cosa è rimpiangerla.
Una cosa afferrarla e indossarla, come si veste una pelle, che accarezzarla fa piacere e tagliarla fa male.
Ma fingere che non sia la tua non si può più fare.