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E’ possibile che la malattia si diffondesse attraverso le goccioline della saliva oppure passasse di mano in mano trasmessa attraverso il contatto con le maniglie delle porte, i corrimani delle scale, gli spiccioli dati in resto. Molto più di questo non si sapeva. I mezzi di informazione avevano chiaramente adottato la strategia della minimizzazione e la notizia passava pochissimo nei notiziari. Probabilmente era per questa ragione che non si spargeva il panico e che le persone continuavano a comportarsi come se nulla fosse, secondo il principio che quello che la televisione non dice, semplicemente non esiste o esiste poco.

Eppure noi sapevamo che il numero dei contagiati aumentava ogni giorno e che nessuno fino a quel momento aveva voluto o era stato capace di trovare una cura. Avevamo visto cadere quasi tutti i nostri padri, molte delle nostre madri, i nostri fratelli maggiori e temevamo che alla fine saremmo stati tutti colpiti.
Solo i bambini e i ragazzi sembravano per il momento immuni al contagio ma nessuno poteva dire a che età di preciso si perdesse la protezione e si diventasse ricettivi alla malattia. L’unica cosa che sapevamo è che a un certo punto molti dei più grandi di noi erano cambiati sotto i nostri occhi, avevano manifestato i segni inequivocabili del morbo e li avevamo perduti per sempre.
Avevamo diciotto e diciannove anni io e te all’epoca. Un’età pericolosa, lo sapevamo bene. Per ridurre il rischio del contagio cercavamo di non frequentare troppo i luoghi pubblici e facevamo una vita ritirata, passando quasi tutto il nostro tempo insieme. Trascorrevamo interi pomeriggi mischiati l’uno con l’altro a parlare. Non c’era argomento che fosse troppo alto o difficile per noi: la vita, la morte, la giustizia, che ricorreva spesso e ci era particolarmente cara, la bellezza, l’amore.
E ancora ci raccontavamo, fino a sfinirci, di tutti i luoghi che avremmo visto e di tutte le cose che avremmo fatto, entrando nei particolari e vivendole già, di fatto, per la prima volta. Ancora oggi mi succede, a volte, di ricordare quei viaggi e non saper dire se sono avvenuti davvero o sono stati vissuti in volo, dall’alto del nostro muretto, vicini di posto su un aereo che solo noi vedevamo. Oppure stavamo in silenzio a leggere i nostri libri standoci accanto per raccontarceli subito dopo con una specie di febbre che eravamo ansiosi di trasmetterci per avere lo stesso lucido agli occhi.
Poi tu ti iscrivesti all’università, fosti preso dagli impegni di inizio anno e per qualche settimana non riuscimmo a vederci. Quando fummo di nuovo insieme capii con orrore che ti eri ammalato.
Avevi quello sguardo che avevo imparato a conoscere. Quello che non si ferma mai sulle cose ed è sempre altrove. Quella specie di piega beffarda delle labbra che sembra sempre un po’ ridere di quello che vede. Che vuol lasciare intendere che c’è ben altro, di ben più serio, da qualche parte a cui tornare. Provai a raccontarti dell’uragano che era in quei giorni Proust nella mia vita, sperando potesse travolgere anche te e farti guarire. Ma le discussioni astratte non ti importavano più e la tua mente non sembrava più in grado di riflettere su qualcosa che non avesse un’utilità pratica. E soprattutto parlavi di soldi. Soldi da guadagnare, soldi da spendere, soldi che percepiva tizio, soldi che arrivavano a caio, paghe laute, possibilità di remunerazioni future, rendite, nuovi amici ricchi, figli di, nipoti di, sponsorizzati da, raccomandati da.
Tra me e te si apriva di colpo il fossato incolmabile che mi separava dai miei genitori e da quasi tutti gli adulti che conoscevo. Alieno con linguaggio alieno. Malato di una malattia che rode il cuore e ti faceva brutto e storpio ai miei occhi.
Valeva evidentemente lo stesso per te. Guardavi i miei vestiti sgualciti e trascurati con disprezzo ferrigno e parevi fiero di essere finalmente vestito come tutti e in mezzo a tutti poterti confondere senza tema di essere visto.
Non ci vedemmo mai più. Davvero, intendo. La malattia consumò quel poco di te che restava e a cui avevo voluto bene e incontrandoci per caso per anni facemmo quasi fatica a salutarci. Ti guardai cento mattine dalla mia finestra passare di fretta. Ricolmo di gadget, telefoni, auto, simboli del tuo nuovo stato, campanelli del lebbroso. Poi scomparisti in un qualche lazzaretto dei loro, società di shipping, di trading o che ne so, reparti per malati terminali, ospedali da cui non si esce vivi.
Mi sei venuto in mente stamattina ed è a quel te sorridente che sento il bisogno di rivolgermi ora. Come eri prima di ammalarti, azzurro e chiaro, unico, amico perduto. Dirti che ho capito, e anche tu lo avresti capito al volo se solo fossi rimasto ancora un po’ tra i sani, che nessuno voleva trovare davvero una cura alla malattia che ti ha portato via. Che il virus era probabilmente uscito dai laboratori del potere o da quello di qualche società governativa. Che lo scopo era quello di far ammalare tutti e far sentire normali i malati e malati i sani. Per poi utilizzare per i propri scopi quei poveri involucri di essere umano svuotati dal morbo.
Mi piacerebbe raccontarti quanto mi è costato avere un sistema immunitario che mi ha reso resistente alla malattia. Non si trovano molti amici quando le cose che sono importanti per te sono quelle che meno contano per tutti, né molta comprensione. Per fortuna il mondo sfavillante dei normali ha bisogno di noi sani per disprezzarci, pezzenti, perdenti, e ci lascia perseverare nei nostri giochi da disadattati. La poesia, la bellezza, la ricerca disperata e vana della verità, la comprensione degli altri e ogni tanto, non sempre, l’amore.
Dicono succeda, a volte, in seguito ad uno shock o ad una malattia del corpo, che qualcuno dei malati guarisca. Non so se sia vero ma voglio dirti che sarebbe bello se capitasse a te. Vederti ricomparire un giorno, azzurro e chiaro, sederci vicini e riprendere tutto da dove eravamo rimasti, da Proust o dall’esistenza di Dio, per un pomeriggio che non possa mai più finire.