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Ivano Ferrari, Ivano Ferrari Genova, Ivano Ferrari ginecologo, letteratura, moneta, Racconti, Racconto, spicciolo
Ti sfuggirono di mano quelle duecento lire con cui giocherellavi, chissà perchè. Avrai avuto quarant’anni all’epoca, a voler proprio esagerare, e un’esistenza da vivere da solo che ti aspettava. Portavi i capelli pettinati indietro e gli occhi verdi che non si sarebbero detti paesani.
La moneta carambolò nell’aria di quella cucina d’altri tempi e tu provasti a prenderla al volo con un riflesso ancora rapido ma la mano finì per afferrare il vuoto. Aspettasti il tintinnio del metallo sul pavimento di graniglia per individuare con l’orecchio il punto dell’impatto prima ancora che con lo sguardo.
Solo il silenzio rispose alla tua attesa.
Ti guardasti ai piedi smarrito e incredulo. Ti girasti su te stesso più volte. Ti inginocchiasti e lasciasti rotolare sul pavimento il tuo sguardo radente in ogni direzione, sotto il tavolo, sotto i mobili e poi lo facesti ancora una volta e un’altra ancora.
Prendesti altre duecento lire e provasti a simulare di nuovo la caduta ma il trillo del metallo arrivò puntuale e saltellò dorato e lucente fino a fermarsi al centro della stanza. Spostasti tutti i mobili, svuotasti la stanza senza successo.
Quella sera andasti a dormire con l’inquietudine.
Da quel giorno per più di quarant’anni non fosti più capace di passare in quella cucina senza guardare per terra nella speranza di vedere lo spicciolo svanito nel nulla. Non riuscisti mai più a spazzare la stanza senza guardare di soppiatto nel mucchietto di polvere sperando di intravedere il lucore della tua monetina. Raccontasti negli anni alle persone più diverse il tuo piccolo mistero nella speranza segreta che qualcuno avesse l’idea geniale che poteva spiegarlo. Era come se l’insondabile, il divino, il magico avessero per un unico attimo fatto capolino nella tua vita scarna solo per farti una burla. E non ti abbandonò mai, tra i mille piccoli e grandi pensieri della vita, le sue tragedie da poco, i suoi sorrisi brevi, quel rimpianto futile e assurdo del tuo spicciolo, che ritornava ogni tanto senza ragione. Lo raccontasti anche a me, tra gli altri, anche se ero solo un bambino, ma nemmeno la mia purezza infantile fu capace di vedere l’invisibile. Ricordo che una notte, avrò avuto sette anni, mi alzai di nascosto per cercare le famose duecento lire. Avevo deciso che non le avrei raccolte, dopo averle individuate, ma avrei finto di vederle insieme a te il giorno dopo perché tu non pensassi che avevo messo lì una moneta nuova a bella posta. Complice il buio mi addormentai sdraiato sul pavimento e mi trovaste al mattino in mezzo alla cucina infreddolito e stordito. Non confessai a nessuno che cosa ci facevo lì.
Ti salutai per l’ultima volta un mattino di maggio. C’erano molte persone a seguirti a passo d’uomo dietro la macchina adornata di fiori anche se molte, camminando, domandavano chi fosse il defunto. Erano talmente pochi i ricordi che ci lasciava la tua vita schiva che ci volle pochissimo per pensare a te come a qualcuno che non ci sarebbe più stato.
Riapparisti nella mia esistenza sotto forma di una lettera del comune. A dieci anni dalle esequie si doveva procedere al disseppellimento per cambiarti collocazione. Mi sembrò vile non essere presente e assistetti all’operazione degli addetti domandandomi se fosse possibile abituarsi anche ad un mestiere come quello.
Quando venne aperta la cassa evitai di guardarti in viso. Le scarpe le ricordavo bene e così i pantaloni nonostante il disegno fosse quasi scomparso. Stavano afflosciati, lisi, come rosicchiati dal tempo buio. Il risvolto della gamba destra, quasi totalmente mangiucchiato dall’umido, lasciava intravedere al suo interno un piccolo cerchio brunito imprigionato nella stoffa. Mi avvicinai di scatto, scosso da un tremore inspiegato. Quelli erano i pantaloni che indossavi il giorno della sparizione dello spicciolo e quelle erano le duecento lire. Era toccato a me trovarle, alla fine.
Fui vinto da un’emozione fortissima. Mi sedetti su una panchina poco distante e senza poterci far nulla, mentre i pochi presenti mi guardavano con aria di circostanza, presi a piangere di un pianto sonoro e squassante. Maledetta.
Maledetta bastarda la vita e i suoi giochetti crudeli.
Noi, palline lanciate a rimbalzare nel flipper, ad incontrare misteri che non capiamo, che mai risolveremo e che probabilmente non significano nulla. Molecole che si urtano, giochi della gravità, rimbalzi.
E mi struggevo per te, povera creatura ignara, che eri passato di qui senza capirci niente, senza poter trovare spiegazione nemmeno al tuo piccolo mistero e per me e per tutte le monete che stanno nascoste nei risvolti e che noi non saremo capaci mai di trovare.