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epicanto, Ivano Ferrari, Ivano Ferrari Genova, Ivano Ferrari ginecologo, letteratura, pedofilia, Racconti, Racconto, verità
Non ci vuole mica tanto a cambiare una vita per sempre. Per la mia sono bastati tre secondi. Quattro al massimo. Quattro secondi per mettere fine a tutta una vita, in un’altra vita, una vita fa.
Ho rivissuto quei quattro secondi quasi ogni giorno, nella vita seguente, per moltissimi anni. Finché un poco per volta anche loro non hanno smesso di farmi visita così spesso. Persino le cose che ci hanno strappato il cuore dal petto perdono forza col tempo e divengono inerti.
Appoggio la mano all’automobile, nell’aria ghiacciata d’inverno. E’ difficile toccare il metallo freddo e credere che all’inizio sia stato lava rovente che colava a mille gradi e accecava a guardarla, come un sole.
Nel piccolo paese dove sono nata, scotta così tanto il sole, quando è verticale sui tetti piatti delle case bianche, che bisogna tenerlo fuori con le persiane chiuse e per strada nessuno può resistere.
Ricordo una canicola di cicale pazze nella luce accecante fuori dalle finestre, quel pomeriggio.
Noi guardavamo il telegiornale nella penombra della stanza distrattamente, standoci addosso, baciandoci ogni due respiri, sorridendoci senza ragione. Sembrava incredibile poterci avere ogni volta che volevamo, giovani sposi, signori del mondo, primi veri amanti nella storia dell’uomo. Non so cosa mi fosse preso, mentre scorreva il servizio su quei fatti orribili, di farti quella domanda, che capriccio infantile. E se tu non l’avessi evitata io certo non te l’avrei fatta di nuovo, con l’insistenza di una bambina che si fissa su un fatto da niente. E invece ti ho girato con la mano il viso amatissimo, il faccino da perenne ragazzo che non voleva saperne di crescere e ho preteso che mi rispondessi. Tu riesci a capire come possono certi uomini fare quelle cose ai bambini? Eh, Peter Pan, lo capisci tu?
La musica si è fermata e tutto ha rallentato.
L’epicanto è una piccola semiluna di cute che in certuni ricopre l’angolo interno dell’occhio.
L’epicanto che hai a sinistra si è contratto impercettibilmente e per un attimo il tuo viso fanciullo si è fatto asimmetrico.
Entrambe le palpebre si sono chiuse e riaperte sbattendo tre volte, la superiore contro l’inferiore.
Una volta.
Due volte.
Tre volte.
Le tue iridi si sono spostate e hanno circumnavigato il mio viso portandosi via il nocciolo nero delle pupille.
La tua bocca ha detto qualcosa che non aveva nessuna importanza.
E mentre la tua voce risuonava vuota, il tuo sguardo stava rivolto in basso, da qualche parte sul pavimento, lontano da me.
Tre, forse quattro secondi, era durato tutto.
Ma io in quell’istante avevo saputo.
Il mio cuore è precipitato da un palazzo e per il vuoto d’aria mi è mancato il respiro. Uno scroscio come di torrente ha preso a rombarmi in testa.
Sono stata capace di sorridere, con le gambe che mi tremavano, di dire che avevo voglia di gelato, di andare in camera, prendere tutti i miei risparmi dal cassetto e di uscire dicendo torno subito. Ho camminato nel deserto rovente del paese fino alla stazione e sul treno ho pianto tutte le lacrime della mia vita.
Quella è stata l’ultima volta che ti ho visto.
Nella pratica di separazione mi sono presa ogni colpa e ho lasciato in quella casa ogni cosa. Cosa potevo dire in fondo?
Non mi sono mai chiesta nemmeno un momento se per caso non mi fossi sbagliata quel giorno. La verità nella vita ci fa visita di rado. Più spesso si nasconde, si camuffa, fa vedere solo pezzi di sé, un seno, una coscia, si diverte a mimetizzarsi in mezzo a copie false. Ma quando decide di mostrarsi tutta non ha bisogno di spiegazioni e si fa chiara in un gesto, in un sorriso, in un modo di inclinare la spalla. Chiara come sono chiare le cose chiare. La sete, la luce, la paura. Senza niente da spiegare.
Io non so se tu nella vita avessi già fatto cose orribili o le avessi solo pensate. Eri tanto giovane. Spero tanto tu non le abbia fatte in seguito. Fossi stata forte avrei provato a curarti, a fermarti. Ma avevo solo diciannove anni e non sapevo niente di quasi ogni cosa e a vedere la verità, anche solo per quattro secondi, non ero pronta davvero.
Non sapevo ancora quanto l’avrei voluta dopo, quanto la vorrei adesso, un po’ di verità. Foss’anche terribile. Foss’anche per quattro secondi. E invece le cose, mano a mano che il tempo passa, sembra si divertano a ingarbugliarsi invece di farsi più chiare.
Forse perché crescendo diventiamo presuntuosi, pretendiamo di spiegare tutto e non riusciamo più a vedere le sole verità vere, che sono quelle che non hanno niente da spiegare. O forse non è nemmeno così. Magari non è in nessun modo, mi dico, mentre sospiro un vapore gelato, mi stringo un brivido nel cappotto e aspetto il vociare dei bambini che sciamano fuori da scuola.