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Caro papà,
sì, sì. Come no. Sarà stato anche uno schifo essere ragazzi nel riflusso degli anni ottanta. I sogni che morivano, il craxismo, il reganismo, il massacro della breve stagione dei diritti, l’incertezza che faceva la sua comparsa sulla scena. E però.
Tu e i tuoi amici potevate almeno pensare, con un margine di approssimazione tutto sommato piccolo, che sareste stati alla fine accolti in qualche modo in grembo a quella società. Magari un po’ sofferente ma pur sempre la vostra.
Potevate vedere messe in forse le rose, tutt’al più, non certo il pane.
Ora noi qui siamo quasi mezzo milione. L’ottava città italiana per abitanti, dicono. Qui a Clerkenwell si fa molto prima a contare gli inglesi che quelli come noi. D’altronde, anche se stiamo zitti, non è difficile riconoscerci. La mattina scemiamo verso la district line con la febbre negli occhi. Siamo imbottiti della retorica del mettersi in gioco, del sapersi adattare, del sapersi evolvere, della costruzione del futuro, delle competenze.
Siamo come soldati volontari. Ci siamo arruolati consci dei rischi, facciamo quello che abbiamo scelto di fare. Siamo cortesi e volenterosi, preparati e disposti ad imparare. Ci adattiamo, non abbiamo particolari puzze sotto il naso, abbiamo delle cose da dimostrare. Ai soldati di leva faremo sempre il culo, non c’è storia.
Se penso a te e ai tuoi coetanei, se guardo su una mappa ideale la vostra distribuzione nel mondo dopo la fine della scuola, mi immagino una serie di puntini accalcati lì dove la sorte vi ha fatti nascere. A volte sullo stesso pianerottolo, nello stesso palazzo, quasi sempre nello stesso quartiere, in casi eccezionali in una zona diversa della stessa città. Altro che soldati di leva. Funghi saprofiti. Abitanti designati di un habitat già assegnato dove avete immancabilmente trovato quello che vi necessitava per vivere. Quelli di voi che hanno dovuto spostarsi a cento chilometri durante il proprio apprendistato lo raccontano oggi come un’eroica odissea di sacrifici e abnegazione. Come la gavetta dura che vi ha forgiati alla vita. E poi alla sera farsi fare la pastasciutta dalla mamma. Vi avrei fatto un po’ provare ad avere la febbre e procurarsi un antibiotico qui, cari genitori. O mettersi in lista e lottare all’arma bianca con altri centinaia di assatanati per avere dieci metri quadri ad un prezzo esoso.
Ieri sera siamo andate con le amiche al 101 a fare, una volta tanto, una serata italians only.
Abbiamo bevuto un po’ e poi abbiamo cantato con vibrante nostalgia le nostre canzoni da emigranti. Mila e Shiro due cuori per la pallavolo, Memole dolce Memole, Ti voglio bene Denver e Lady Oscar. Tutti ridevano ed è stato proprio bello sentire questa provenienza comune. Versione attualizzata di “Ma se ghe pensu” o “La porti un bacione a Firenze” di un secolo addietro. Poi tornando a casa ho pensato che anche se il biglietto con la Ryan Air non costa nulla e per vederci non saremo mai costretti a prendere il bastimento, non siamo stati mai così distanti noi e l’Italia, come lo siamo oggi. E che probabilmente pochi di noi avranno mai più la voglia o la possibilità di tornare. Ci sposeremo qui, faremo otturazioni dentarie, partoriremo in un birth center e parlemo itanglish ai nostri bambini. Idealizzeremo la bellezza e il clima d’Italia e tornando d’estate resteremo delusi. Terremo italiansoflondon.com aperto sul desktop per sapere che cosa fanno i ragazzi alla sera e confrontarlo con quello che facevamo noi. Avremo un po’ di nostalgia, anche se sempre meno. Dovremo definirci italiani quasi ogni giorno mentre voi, italiani d’Italia, non sentirete il bisogno di farlo mai.
Vedi pa’, è andata così. Si vede che ogni tre o quattro generazioni il nostro paese deve spargerci per il mondo come una gatta abbandona i gattini. E che c’è chi deve diventare adulto attraverso una strada semplice e chi lo deve fare attraverso una strada difficile.
Bravo chi ci riesce, per carità, ma ogni tanto dura proprio fatica.
A presto papà e see you soon.
La tua Azzurra.