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Ma poi che te ne saresti fatto di questi dieci anni in cui non ci sei stato?
Ti saresti aspettato grandi cose dalle tue domeniche e ne saresti rimasto deluso. Puntualmente.
Ti saresti ripromesso qualche rinascita per il lunedì seguente, avresti fantasticato sulle ferie, ti saresti detto ad ogni capodanno che il meglio doveva ancora arrivare ma che, onestamente, cominciava un po’ a tardare. Ti avrebbero ghiacciato il fiato nel mezzo della notte serissime sciocchezze che il giorno dopo nemmeno avresti saputo raccontare.
Avresti scosso il capo sul divano di fronte ai decapitatori mascherati, ti saresti preoccupato della crisi, avresti maledetto il governo e il clima, i musulmani, i russi, i clandestini, mentre il mondo allestiva per te il suo spettacolo fatto di grandi novità e progresso. E contemplandolo con un pizzico di sollievo e orgoglio, avresti misurato l’incommensurabile fortuna di aver avuto in sorte un tempo in cui le auto sanno infilarsi da sole nel parcheggio e il telefono può riconoscere la tua voce e l’impronta del tuo dito. E un senso sotterraneo di stortura ti avrebbe punto al collo, ma solo un lampo, una nuvola veloce, alla vista del sangue e delle membra inerti, così poco moderne, nei notiziari delle venti.
Avevi un sorriso un po’ di scherno, a volte, che non mi piaceva ma che ti perdonavo perché t’era venuto dopo e non poteva cancellare il sorriso che di te per me restava: quello del bambino che eri stato, l’amico che mi stava dietro in banco, grande e buono, il lupetto che non trovava una divisa sufficientemente grande per il corpo d’uomo che gli cresceva anzitempo addosso e che persino quei buffi piedi ortopedici duravano fatica a sostenere.
Avresti forse riservato quel tuo sorriso nuovo alle menzogne del nuovo millennio nel corso di questi brevi lunghi anni che non hai vissuto? Agli inutili e ininfluenti avanzamenti di cui non sappiamo far più senza? Al tre per due che ci toglie tre cose e ce ne dona due, ma meno preziose?
Forse mi risponderesti che ti saresti accontentato di vedere i tuoi figli crescere e tua moglie invecchiarti accanto dolcemente.
Così mi diresti forse, anzi certamente.
Così voglio rivelarti una cosa, ora che sono diventato così più anziano di te e tanto ti sopravanzo in esperienza.
Temo, e dico temo, non ne sono ancora certo, che in qualsiasi momento passi l’ultima corsa, alla fine faccia un po’ lo stesso.
Che cinquanta, sessanta, ottanta, cambi poco o nulla e il menù che il convento ogni giorno serve sia sempre uguale ma camuffato, per cercare di sembrar variato. E che solo conti con che occhi lo si è visto, con che denti masticato, con quale lingua impastato e ingurgitato. Che sole c’era quel giorno e quali odori.
E temo ancora, e dico temo, che non ne sono certo, che aver visto il primo passo di tuo figlio alla fine non sia troppo diverso dal vederlo sposo o fare figli a sua volta, se non per lui, tutt’al più, per la sua storia che narrerà qualcun altro tra un minuto o cinquant’anni o cento. Roba aliena, roba che non riguarda te né me. Roba misteriosa e arcinota nel contempo, di cui non impicciarsi, pena il ridicolo, il ridicolo certo, hai sentito bene, anche da morti.
Che non c’è niente di peggio dei morti che non vogliono fare i morti se non i vivi. Che si ostinano a non fare i vivi.
Allora ti faccio un augurio, un augurio all’indietro, nel decennale della tua scomparsa. Chissà se si potrà. Un augurio rovescio.
Di aver vissuto più di quanto potrei dire d’aver vissuto io, morissi oggi. E d’aver chiuso a modo tuo il tuo cerchio, con una divisa della tua taglia, finalmente, in cui stare a tuo agio senza sentirti dentro i panni d’altri.