Patty stava male ormai da troppo tempo.
L’odore lo sentivi già prima di entrare nella stanza, irrimediabile, e anche se cercavi di far mostra di non essertene avveduto, era facile leggere sulla faccia di chi ti accompagnava la stessa espressione che ti portavi addosso, quella di chi vuol dare a vedere di non percepire alcun odore.
Per fortuna le visite duravano poco, il tempo bastevole a che non si potesse dire che non erano avvenute.
Si stava un po’ in piedi al fondo al letto, qualcuno più in confidenza si sedeva sul materasso accanto alla malata, si raccontavano due sciocchezze del mondo di fuori, si lasciava qualche rivista, un dolce, e si fuggiva attraverso la porta come paracadutisti che abbandonano l’aereo lanciandosi attraverso il portello spalancato.
I consulti medici per Patty erano finiti da molto tempo e anche i tentativi di curarsi da sola oramai erano un ricordo. Da quando aveva rinunciato a farmaci, applicazioni, flebo, docce emozionali, suffumigi, passeggiate, meditazioni, sedute di agopuntura, di yoga, di osteopatia, omeopatia, omotossicologia, aveva smesso di celare il suo male e aveva preso a mostrarsi a chi le faceva visita esattamente com’era, vinta, in quel suo letto colorato.
Eppure, nonostante tutto, non la si poteva dire rassegnata.
Una sorta di memoria tenace sembrava non volerla abbandonare del tempo in cui tutto era ancora intero, una incapacità di considerarlo finito per sempre e di accettare che quella che stava vivendo fosse divenuta la normalità. Così, mentre esponeva senza più ritegno a chiunque la sua immagine di ammalata grave, pure non smetteva di guardare in continuazione verso la porta, come in attesa dell’uomo, del fatto, del vento che avrebbe chiuso quella parentesi e l’avrebbe riconsegnata alla sua vita di salute e d’incoscienza.
La speranza entrò un giorno qualsiasi all’ora di pranzo dopo essersi fatta annunciare da qualche timido colpo di tosse.
Tutto in quel giovane medico denunciava la certezza di essere portatore delle soluzioni giuste per quel caso difficile.
Le sclere di Patty erano stinte come di piscio, gialle d’ittero e l’alito era epatico, greve. Il dottore non le spalancò le palpebre con le dita per veder meglio la sclera, non le abbassò la lingua biancastra con il manico gelato del cucchiaio, non scopri l’addome sotto la camicia cercando con il taglio della mano il bordo del fegato mentre invitava la paziente ad inspirare profondamente e ad espirare. Quelle cose lì lui non le faceva. Si era ormai gettato alle spalle il vecchio ciarpame di una scienza incapace di curare la maggior parte dei mali umani ed era proprio per questo che si trovava in quella stanza.
Prescrisse un nuovo taglio di capelli.
“Un taglio corto, mosso ed una nuova tinta, una che non ha mai portato” disse sorridendo. “Lei è mai stata nera?”.
E quando Patty disse che no, lei non era mai stata nera, che era sempre stata bionda, tutt’al più un po’ più chiara o un po’ più scura a seconda della perizia del parrucchiere allora il dottore sentenziò: “È giunto il momento di tingersi di nero”.
A tutti i presenti l’assoluta novità dell’approccio terapeutico parve di buon auspicio.
Patty ormai non andava quasi più di corpo, emetteva nella padella poca urina stentata che sembrava marsala ed era tormentata da una specie di sete inestinguibile.
Inutile dire che il dottorino non palpò la pancia e non prescrisse analisi.
Disse che si dovevano tagliare le gambe del letto in modo da abbassarlo almeno di venti centimetri e bisognava abolire tutte le lenzuola di cotone per sostituirle con biancheria di seta cruda. Inoltre bisognava tinteggiare la stanza color pesca.
Ci fu un moto di entusiasmo. Prescrizioni così inedite non potevano che essere il frutto di un procedimento diagnostico inedito, di una conoscenza del tutto originale della fisiopatologia e del rapporto tra cause ed effetti. Ma soprattutto spezzavano finalmente ogni legame con quelle, inutili, fatte da coloro che lo avevano preceduto.
Il medico assicurò che sarebbe tornato da lì a qualche giorno, diede a un buffetto sulla guancia di Patty e imboccò l’uscita con un passo energico che sapeva di futuro.
I suoi comandamenti vennero rispettati con assoluta diligenza.
Federico Vannucci, amico di una vita e imbianchino in pensione si incaricò della rinfrescata alle pareti. Le lenzuola vennero sostituite da mani casalinghe e l’ex marito dell’inferma, Stefano, si presentò la sera stessa con la sua cassetta degli attrezzi per occuparsi delle gambe del letto. Non senza fatica si trovò una tal Piera, pettinatrice a domicilio che aveva fama d’essere brava e di avere modiche tariffe.
“Sto già meglio! -dichiarò Patty, raggiante nella sua nuova acconciatura- Davvero!”. L’odore della pittura ad acqua riempiva la stanza di ottimismo e tutti sorridevano.
Una settimana dopo il verificarsi di cambiamenti tanto radicali nella vita della malata, la situazione prese a peggiorare. Le condizioni di Patty precipitarono e lei si trovò a morire, quasi incredula, in un pomeriggio di sole che le illuminava il capo corvino dalla finestra come una macchia nera sul cuscino bianco di seta lucida.
Era passata non più di un’ora dal decesso che il giovane medico fece la sua comparsa nella stanza.
Non appena si rese conto della situazione la sua espressione si storse in una smorfia di incredulità e dispetto.
I pochi parenti e gli amici fissavano il pavimento o facevano girovagare lo sguardo sulle mani o sugli occhi chiusi della morta.
“Complimenti!” esclamò il dottorino rivolto alla povera Patty con tono sarcastico “Davvero! I miei complimenti!”.
“Dottore…” il Vannucci aveva preso la parola e con la voce fratturata si era provato a balbettare qualcosa ma quasi subito si era pentito e aveva desistito.
“Complimenti anche a voi! -ribadì il nuovo arrivato- Avete lasciato che tutto il malcostume, tutta la corruzione del passato alla fine uccidessero questa donna! Avete consentito che i vostri schemi mentali marci, obsoleti, la soffocassero! -la voce del giovane che all’inizio era poco più di un sibilo andava crescendo di volume- Complimenti!” concluse quasi urlando.
“Ma dottore -aveva piagnucolato la Piera- noi abbiamo fatto tutto quello che lei ci ha detto!”
“Basta! La vostra inerzia, la vostra mafia mi hanno stufato! Come vi si potrà mai salvare, mi domando? Come?”
Con il petto che si alzava e si abbassava, l’immagine stessa dell’indignazione, il medico si voltò e uscì dalla stanza sbattendo la porta senza nemmeno degnare di uno sguardo la morta, capinera stecchita sul suo giaciglio di seta.
Tutti i presenti restarono fermi in silenzio con una specie di senso di colpa oscuro in cuore e di imbarazzo.
Il sole, entrando sbieco, accese l’arancio alle pareti di una luce boreale.
GUARIGIONE
09 domenica Ott 2016
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Meravigliosa metafora. Scritta con maestria, come sempre. Complimenti.
Ti sono grato per la tua lettura, Paolo. Grazie
E’ sempre un piacere.
Bentornato. Felice di rileggerti. Sul racconto niente da eccepire. Bello.
🙂