Ad Antonio, maestro di metafore
Ogni qual volta mi è possibile dò passaggi in macchina agli sconosciuti.
Per essere sincero in passato non mi comportavo così. Come molti caricavo gli autostoppisti di rado e solo se me lo suggeriva l’umore del momento.
Poi è successo qualcosa.
Questa forma antichissima di mutuo soccorso tra estranei è divenuta in breve tempo sconveniente, sconsigliata o addirittura illegale ed è passata a pieno titolo tra i comportamenti di un epoca finita, superata insieme a molti altri usi e costumi (Che ce l’hai una sigaretta? Scusa, sa dirmi l’ora?).
Quando questo mi è stato chiaro, nel momento esatto in cui ho realizzato che lo speranzoso ragazzotto, la coppia di amiche appostate alla stazione di servizio e loro zainoni sarebbero rimasti lì forse per sempre se solo io non avessi offerto loro un passaggio, qualcosa in me è scattato. Ho deciso che, ove possibile, non sarei stato io a inchiavardare nella loro giovane mente l’informazione che gli esseri umani sono tutti stronzi, non fanno nulla per nulla ed è meglio non aspettarsi niente da loro.
Così ho cominciato ad educarli a loro insaputa, fermandomi e facendoli salire a bordo con un bel sorriso, senza perdermene uno.
Questo che mi sta accanto adesso, ad esempio, sembra proprio far parte dei giovani del tutto ignari del messaggio di speranza che vorrebbe trasmettere il mio gesto. È diretto a Nizza, o almeno così dice il suo cartello, e sono venti minuti che non apre bocca.
Provo a farlo parlare. Mi risponde a monosillabi. Ha un’espressione talmente cupa che non mi trattengo dal chiedergli se non ci sia qualcosa che non va.
Mi risponde che ha paura di essere ammalato.
L’intimità di questa inaspettata confessione mi disorienta.
“Perchè pensi questo?” gli domando con discrezione guardando la strada.
“Non lo so è più forte di me”.
“Ma ti senti qualche sintomo? Hai qualche malessere?”
“Tutti” mi risponde, e si tocca un fianco.
Penso che è qualche giorno che ho il cuore che dà delle rullate improvvise. Non ho nemmeno mai controllato la prostata, come si dovrebbe fare.
D’un tratto ho una specie di premonizione, di più, una certezza: non può andarmi dritta all’infinito. Presto mi ammalerò, forse qualcosa in me ha già smesso di funzionare come deve. Non riconoscerò più il mio corpo, il suo ritmo. Lo guarderò da fuori, come quello di un altro, temendo la sua chimica, le sua elettricità ammutinata. Entrerò nel territorio degli uomini rotti che vivono nel rimpianto della salute perduta e nella speranza della guarigione.
Cerco qualcosa da dire ma mi rendo conto di non aver voglia di parlare. Sono tutto in questa ambascia quando vedo a lato di strada un ragazzo col pollice eretto in fondo al braccio teso.
Mi fermo e rispondo alla sua domanda attraverso il finestrino.
“Sì, vado verso Imperia. Certo, sali pure”.
Chissà se i miei due passeggeri ora si rivolgeranno parola. Sono proprio curioso.
Dopo un quarto d’ora di totale silenzio penso che forse dovrei provare a stimolare un po’ di conversazione ma ecco che l’attenzione di tutti viene di colpo attirata da una sagoma scura, immobile sulla carreggiata ad un centinaio di metri, una specie di sacco abbandonato al lato della strada.
Passandogli accanto ci rendiamo contro che si tratta di ciò che resta di un cane travolto da un’auto. Dal sedile di dietro sento una specie di mugolio.
“C’è qualcosa che non va?” domando in apprensione.
“Niente. Cioè, quel cane…”.
“Poverino” dico.
Segue lunga pausa.
“Io la morte non la posso vedere” dice la voce di dietro.
“Ti capisco. -rispondo- Pensa che io…”
“Mi fa star male, capisci? Più di qualsiasi cosa. Mi fa paura più di qualsiasi cosa. Ti dispiace accostare un secondo?”
Accosto senza obiettare. Il ragazzo alla mia destra si guarda le ginocchia in silenzio. Il passeggero posteriore scende e si appoggia al guardrail. Lo vedo nello specchietto respirare affannosamente.
Penso che dopo anni trascorsi senza pensare alla morte ora, da qualche tempo, la sua presenza è tornata a farmi visita. Sento l’imminenza costante del suo squillo imperioso, come quello del campanello alla fine dell’ora scolastica che ti costringeva a consegnare il compito non ancora finito. Sento che solo lei sa gettare la luce corretta su quello che è stato fino ad oggi lo scorrere dei miei giorni. Stupido. Scialacquato. Inutile. E mi amareggio pensando a come mi sembrava sopportabile tutto questo spreco quando riuscivo a pensare che ci fosse ancora modo per rimediare, per rinascere, per riscattarsi. A volte vedo il nero lì in fondo, come una porta. Un nero che si può paragonare all’inesistenza del momento in cui si prende sonno, all’impossibilità di ricordarlo. Ma senza risveglio.
“Io non la capisco la paura della morte. -sussurra il mio passeggero rigirandosi tra le mani il rettangolo di cartone con su scritto “Nizza”- È della sofferenza che bisogna aver paura, altro che. Non certo della sua fine”.
Intanto il ragazzo risale, chiude piano la portiera posteriore e mi fa cenno che posso ripartire. È pallido da far paura.
Cerco di concentrarmi sulle cose pratiche: guidare senza strappi, la necessità di fermarmi a breve per far benzina.
Al distributore scelgo la pompa self service. Schiaccio la leva, sento frusciare il carburante nel tubo e ne avverto spandersi il profumo puzzolente. Nell’abitacolo i miei passeggeri aspettano in silenzio.
“Scusi!” la voce femminile mi arriva da dietro.
La sua proprietaria mi chiede un passaggio fino a Ventimiglia. Ha il naso e le guance picchiettate di lentiggini e una cascata rosso tiziano che le arriva alle spalle.
“E come no? Certo” rispondo.
Certo che puoi unirti alla combriccola degli allegroni.
Al contrario dei precedenti acquisti Daniela chiacchiera volentieri e ha una bella voce squillante. Sta raggiungendo il fidanzato poliziotto assegnato al posto di confine da oltre tre mesi per la faccenda dei migranti. Parla di tutto, è simpatica, dice che ha provato ad accettare che lui tornasse a casa solo un giorno ogni quindici ma poi non ce l’ha più fatta. È brutta, dice, la solitudine. È la cosa più brutta che esista. Non c’è nulla che le faccia più paura al mondo. Gli altri la ascoltano leggendole il viso senza commentare.
Ricordo il giorno, saranno quasi trent’anni, in cui ho incontrato la solitudine per la prima volta. Ho sempre avuto bisogno di sottrarmi alla compagnia degli altri, di tanto in tanto, di appartarmi per qualche tempo con i miei pensieri. Il silenzio è per me, da che ho memoria, come l’aria per un’anima che affoga. Quell’estate ero rimasto da solo a studiare in città e dopo qualche giorno trascorso nel silenzio della casa, avevo d’un tratto sentito il bisogno di vedere qualcuno. Ero uscito nel pomeriggio, faceva caldissimo, e avevo perlustrato il quartiere in lungo e in largo alla ricerca di una faccia nota senza che ci fosse stato verso di incontrarla.
Quando era stato chiaro che non restava altro che rincasare senza aver potuto nemmeno scambiare due parole, m’aveva assalito un’angoscia indescrivibile. Era una sensazione soffocante, mai sperimentata, simile a quella che si prova quando si resta chiusi al buio in un spazio angusto.
Quel giorno mi sono diventate chiare due o tre cosette. Come la differenza che passa tra sollevare un bilanciere in palestra o un secchio di cemento in cantiere. La distanza tragica che c’è tra la condanna e la scelta.
La strada oggi è libera e si viaggia che è una bellezza. Nessuno parla più e tutti si sta come in attesa che scenda la sera nel pomeriggio ancora trionfante.
Daniela scartoccia un sacchetto di patatine e ne offre a tutti e ognuno accetta, dopo breve resistenza, così che la macchina in un attimo risuona di scrocchi come una tana di roditori.
Il mare scorre a sinistra rivelato, nascosto e rivelato di nuovo dai parapetti, le piante, le case.
Mi accorgo che tra breve incontreremo l’abitato di S.
Lì, nel piazzale sulla destra prima che cominci la fila di case, non è infrequente incontrare qualcuno che sporge il braccio in strada cercando un passaggio.
E io capisco di aspettare questo incontro e di temerlo con tutto me stesso.
Di desiderare che su quel marciapiede non ci sia un altro passeggero pronto a salire e di fremere, allo stesso tempo, per la voglia di averlo con noi.