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C’è questo ex play-boy o ballerino classico che arriva da noi e chiede di parlare con qualcuno.
Non si capisce cosa possa volere uno così in un ufficio come il nostro, eppure sicuramente non ha sbagliato destinazione: è uscito dall’ascensore, non ha degnato di uno sguardo il Crédit Agricole che è proprio di fronte, è passato davanti al CAF e ha percorso tutto il corridoio fino alla nostra porta.
«Non c’è nessuno disponibile in questo momento, signore, se vuole può accennare a me» cantilena la Milva mentre gli fa lo scanner verticale e orizzontale.
Niente, il ballerino ha un problema ma non vuole precisare. Afferma che ne parlerà a tempo debito con chi di dovere. Sembra molto deciso.
Dico ballerino (o playboy) perché ha un incedere elegante, quasi sensuale, con una postura dritta, composta, la schiena ben arcuata, la pancia in dentro e il mento appena sollevato.
«Allora può attendere in saletta» replica la Milva con l’aria vagamente risentita e lo accompagna picchiettando coi tacchi lungo il breve tragitto per la sala d’aspetto. Playboy no, sicuramente, tutt’al più ballerino visto che nemmeno si degna di guardarle il sedere che fa una giravolta e torna a posarsi col suo volo oscillante sulla sedia da cui s’era appena librato.
La mattina è uno sputo che si arrampica come un furetto fino alle dieci e poi si lascia precipitare a corpo morto sull’intervallo del pranzo.
“Che fa? Aspetta lì?” urla la Milva mentre indossa il soprabito.
Il ballerino fa cenno di sì con la testa. Si è tolto le scarpe e sta con le calze blu lise ostentate sulla poltroncina di fronte alla sua. Ha piedi lunghi e magri, certamente plasmati dalla costrizione e dalle posizioni che impone la disciplina spietata del ballo.
Che spettacolo il fuggi fuggi della working class verso i luoghi di ristoro appositamente allestiti ai confini della prigione! Il cibo che si fa altro: pretesto per rubacchiare mezz’ora d’aria, tregua legittimata dalla fisiologia e santificata dalla glicemia, parentesi azzannata in piedi al bancone di un bar, consumata nel coito fugace con una mozzarella sciapa e un pomodoro in pvc, trascorsa nella malagrazia di un piatto di penne arroventate dai microonde e di una sigaretta succhiata sulla via del ritorno mentre i sorveglianti attendono pazienti il disbrigo delle necessità corporali con la loro frusta alla cinta.
«Non si dà per vinto eh?»
Il ballerino si è rimesso le scarpe. Legge una rivista d’architettura trovata in sala d’aspetto.
Chissà come ha il torace sotto la camicia. I muscoli asciugati da anni di esercizi a corpo libero tesi tra omero e sterno, tra mastoide e clavicola e sull’addome, giù fino agli inguini scavati come solchi dove scorre la pioggia.
L’uomo in attesa si riscuote vedendo la Milva e domanda quando arriverà qualcuno con cui poter finalmente parlare.
Lei ha un lampo di pena per lui.
«Non so se le conviene aspettare. Non è mica certo che nel pomeriggio arrivi qualcuno. A volte stanno fuori tutto il giorno.»
È così da noi. A volte non si trova una scrivania per lavorare e poi per giorni non si vede nessuno. Ma il ballerino non può saperlo, si capisce, e risponde così, che aspetta volentieri, di non preoccuparsi.
Così la Milva si mette a lavorare o almeno ci prova. Scrive due mail, fa qualche telefonata ma la stagione è quella che è e il lavoro è poco. Da noi ci sono i momenti di lavoro frenetico e poi i periodi morti, è sempre stato così.
Se ogni tanto deve fare qualche telefonata privata la Milva usa il suo cellulare. Non s’è mai capito se i tabulati vengono controllati ma nel dubbio meglio non rischiare. Ruota la sedia girevole per non farsi vedere le labbra dal ballerino in sala d’aspetto e dice le sue cose. A volte nel bel mezzo di una conversazione squilla il telefono dell’ufficio e lei dice qualcosa tipo “scusa ora ti devo salutare” e intanto alza la cornetta per rispondere con la sua voce lavorativa, ma succede di rado perché le telefonate sono poche, come si diceva.
Il ballerino intanto sembra non abbia più voglia di leggere e si sia messo d’impegno a guardarla. Se n’è accorta quasi subito e ne è rimasta sorpresa. Quello che la spiazza è che non si tratta del solito modo che hanno gli uomini che le strappano i vestiti a colpi di ciglia. Assomiglia più a uno studio, attento, meticoloso, dei suoi gesti, della sua persona, dell’ambiente in cui si muove.
Quando arrivano le quattro, il pomeriggio comincia ad odorare di sera e l’odore diviene ogni minuto più forte.
Anche se manca ancora parecchio alla chiusura tutto diviene inspiegabilmente provvisorio, segnato dall’onnipresenza della dismissione imminente. Di colpo sembra non si possa più iniziare nulla di nuovo.
Credo che sia così dappertutto ma io preferisco parlare solo della mia esperienza e confermo che da noi succede proprio così, che dopo le quattro non si riesce più a combinar nulla. Eppure ci sarebbe il tempo di fare ancora moltissimo, e bene per di più, vista la tranquillità che di solito regna a quell’ora, ma sembra che l’idea della fine sia capace da sola di togliere ogni forza a quello che avviene. Che il suo stare acquattata dietro l’angolo, il suo semplice avvicinarsi, sia capace di togliere senso a ogni sforzo.
«Senta -dice a voce alta la Milva- noi tra non molto chiudiamo».
Il ballerino, o forse playboy (questa seconda ipotesi ha ripreso forza con gli sguardi dell’ultima ora) dice che non importa, che lui aspetta fino all’ultimo minuto.
La Milva resta in silenzio, come dubbiosa.
«Gradisce mica un caffè nell’attesa? Abbiamo una macchinetta. Non è un granché ma si lascia bere.»
Il playboy dice che sì, un caffè lo prende volentieri. Senza zucchero se possibile.
Eccoli gli impiegati del Crédit Agricole che cominciano a defilarsi alla chetichella. Li vede comparire nel corridoio uno alla volta, con l’aria un po’ furtiva, mentre aspetta che il display dia il via libera al ritiro del bicchierino di plastica. Quando quelli della banca cominciano ad andarsene è il segno che la giornata sta per finire. Da noi è così, c’è poco da fare.
La Milva ritorna dal playboy con la camminata cauta di quando non si vuole rovesciare qualcosa e gli porge il bicchierino. Lui lo prende senza alzarsi e intanto la guarda dal basso. Poi lo poggia sulla sedia di fianco alla propria e fa lo stesso con l’altro dopo averlo preso con delicatezza dalla mano sinistra di lei. Infine torna alle mani rimaste vuote e se le poggia sul petto, sotto la camicia.
La Milva sente la pelle liscia e i muscoli pettorali tesi e si lascia sollevare per la vita, come fosse senza peso. Alzandosi in piedi il ballerino si poggia la donna sulla spalla destra e fa un giro su stesso e poi un altro. La Milva alza le braccia sopra la testa, con grazia, poi piega una gamba e stende l’altra, dietro di sè, in modo che il ballerino la prenda e tenendola per quella e per la vita la sollevi in alto, in cima alle braccia tese.
È strano l’ufficio visto dall’alto e ancor più strano percorrerlo tutto così, come volando, sostenuta dalle mani dell’uomo, una sulla coscia, calda e l’altra forte sotto la vita. Trova sia un luogo incontrovertibilmente assurdo e sconsolato e ancora, mentre lui la posa con delicatezza sul pavimento, si chiede come sia possibile trascorrere lì dentro tutti i propri giorni. Poi, tornata per terra, in piedi di fronte al ballerino, sbottonare e lasciarsi sbottonare è tutt’uno. Baciare e farsi baciare, toccare e farsi toccare, guardare e farsi guardare, dare e ricevere, perdere e perdersi, prendere e prendersi.
«Sono le cinque -dice alla fine la Milva con un filo di voce- non verrà più nessuno».
Il ballerino playboy accoglie la notizia senza scomporsi. Si riveste, torna alla sua sedia, prende la borsa, beve il caffè freddo, porta l’altro alla Milva che lo beve d’un fiato, le accarezza una guancia e si avvia verso la porta.
«Domani siamo chiusi per inventario, -gli grida dietro la Milva- non le conviene tornare! E la prossima settimana siamo tutti alla fiera di Monaco! Se vuole qualcuno che si occupi del suo problema forse è meglio mandare una mail e chiedere un appuntamento con l’ingegnere! È quasi sempre in ufficio il mercoledì!»
No, è troppo tardi. Dice più o meno così l’ex playboy (o ballerino). Era un problema da risolvere oggi e domani non avrà più importanza.
Poi accelera il passo per non perdere l’ascensore stipato di impiegati in fuga da un’altra giornata e si inabissa nella loro stanca euforia di scolari invecchiati all’uscita di scuola.