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Il vento che veniva da monte non lo si sentiva, lo si vedeva. Passava alto e planava sull’acqua disegnando semicerchi che correvano nella direzione opposta alle onde e si perdevano al largo.
Dalla finestra della sua stanza F. guardava il mare incresparsi e si sentiva pieno di uno stupore triste.
Di solito la notte funzionava come una specie di filtro. Tutto quello che faceva male, anche molto male ma non aveva un vero aggancio con la realtà restava nelle maglie del filtro e non arrivava al mattino. Era una cosa infallibile. Doveva proprio esser grave il cruccio, o tremendamente concreto, perché ne restasse traccia nei pensieri al risveglio. Poi, mano a mano che ci si addentrava nel giorno, tutte le scorie, il pulviscolo, i malumori, le sciocchezze, i detti e i non detti riprendevano a depositarsi pian piano sui pensieri e a impastarli, intasarli, rallentarli finché non si bloccava tutto. A quel punto ci volevano un’altra notte e un altro risveglio perché la sporcizia venisse mondata e ogni cosa riprendesse il suo posto.
Ma in quella mattina ventosa nulla stava andando come al solito.
Qualcosa del giorno prima gli era rimasto appiccicato allo stomaco e non smetteva di dargli il tormento. Nemmeno il mare gualcito di tramontana poteva più consolarlo per questo.
In realtà F. non avrebbe dovuto sentirsi troppo stupito, sotto sotto sapeva fin dal giorno precedente che quel suo malessere sarebbe stato capace di sopravvivere alla notte. E sapeva anche che non si trattava di nulla di così misterioso da dover fare la fatica di trovargli un nome. Era una cosa chiara, perché già successa altre volte, chiara come si stava facendo chiaro il cielo dalla parte del porto, tra le due gru dove di solito sorgeva il sole.
Un amico era spuntato dalla preistoria ed era transitato come una cometa ai suoi occhi impreparati che attraversavano la strada in centro.
Questa resurrezione aveva provocato al suo passaggio un terremoto che crollo dopo crollo lo aveva ridotto in poche ore ad un mucchio di pietre calcinate ai suoi stessi piedi.
Cosa gli aveva risvegliato dentro l’immagine del suo vecchio amico che si aggirava per questa terra com’era suo pieno diritto?
Una specie di trailer della sua vita, di quelli che riassumono in poche immagini tutta la storia di un lungometraggio.
Per un cortocircuito maledetto l’apparizione lo aveva riportato all’immagine di sé stesso al tempo in cui si frequentavano e da lì, passaggio dopo passaggio, ai molti sé che si erano succeduti negli anni fino a quello attuale, che stava affacciato a quella finestra. Quando F. si era rivisto, non aveva provato nostalgia o tenerezza o imbarazzo o compiacimento o curiosità per i molti personaggi che avevano declinato la sua presenza nel mondo nel corso degli anni. Non aveva riso delle pose, degli atteggiamenti, delle convinzioni, delle acconciature, delle certezze che li avevano caratterizzati. Aveva invece provato l’unico sentimento che gli sembrava di poter provare. La vergogna.
Non che avesse fatto nulla di particolarmente strano o efferato nella propria esistenza o di eclatante o di terribile. Semplicemente aveva cercato di essere in ogni momento quello che gli sembrava sarebbe stato bello o giusto essere. Ed era esattamente questo il problema. Erano così cambiate le sue idee a riguardo, sul bello, sul giusto e su tutto il resto, che ognuna delle sue ambizioni passate ora gli pareva sciocca, indifendibile, desolante e lo spettacolo che aveva dato di sé qualcosa che avrebbe cancellato con tutto se stesso. Non solo. A ben pensarci nemmeno era certo di poter credere alla propria buona fede passata, anzi, tutte quelle che aveva assunto gli parevano pose ostentate più per coerenza con il personaggio del tempo che per intima convinzione. E anche ciò che era arrivato ad essere, quello che in quel momento gli faceva formulare questi pensieri e che, tanto per cambiare gli sembrava la summa dell’intero suo percorso, il punto di arrivo, ciò che più da vicino poteva definirsi saggezza, quanto sarebbe durato alla prova del tempo? Meno di un soffio. Tra breve avrebbe giudicato il se stesso che era, un povero imbecille. E se fosse morto sul colpo in quell’istante, sarebbe morto da perfetto imbecille.
Sentì il bisogno di annullarsi o di partire per un luogo dove non ci fosse traccia del suo passato. Maledisse il mare che lo aveva visto stupido, presuntuoso, vanesio, vano, superficiale, falso.
Fu in quell’istante, un momento prima di affogare, che M. fece la sua comparsa silenziosa nella stanza portando il caffè in equilibrio sulle sue belle gambe. Le gambe che non invecchiano col resto del corpo.
«Hai visto che giornata?»
«Stupenda, davvero.»
«Che ne dici se…»
«Ieri ho rivisto G. Ti ricordi di G.? »
«Ovvio che mi ricordo». Poi, dopo aver poggiato le tazzine sul tavolo: «Ma come sarebbe che lo hai visto ieri?»
«L’ho visto per strada. Che c’è di strano?»
M. diede un sorso al caffè guardando oltre il davanzale.
«Visto che non ti sei mosso di casa tutto il giorno, qualcosa di strano c’è»
«Come dici scusa?»
«Ieri non hai messo il becco fuori di casa» ribadì.
Nell’istante in cui lei lo aveva detto, aveva saputo che era vero. Restò immobile a guardarsi i piedi.
«Sei sempre il solito -disse M. accarezzandogli la guancia- gli anni passano e tu sei sempre lo stesso.»
Fuori l’alba aveva terminato di compiersi e un bell’azzurro pulito accendeva ogni finestra come uno specchio lucente.
Era bella M.
A volte lui la amava più di quanto la odiasse.
Talvolta la odiava. Più di quanto l’amasse.