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Ricordi quando l’ho fatto per la prima volta? Era un anno che ti eri ammalata e io non ne potevo più di stare così a guardarti come un pupazzo spezzato dal dolore e di asciugarti gli angoli della bocca trattenendo il pianto. Di passare le giornate a parlarti senza ricevere risposta. Di cercare d’indovinare che cosa stessi pensando.
Era stato da subito un amore perfetto, il nostro, anche se ci eravamo conosciuti tardi, quasi alle soglie della pensione. Ma che differenza aveva fatto, alla fine? Era bastato un pugno di settimane a recuperare il tempo della giovinezza che non ci eravamo trascorsi accanto. In un lampo eravamo diventati una cosa sola ed erano iniziati quei sei anni di perfezione assoluta che hanno fatto di te la te che sei oggi tu per me. E io quella mattina non ne potevo più di stare in astinenza dal tuo sorriso.
Mi è bastato ricominciare a fare quello che avevo sempre fatto al Centro Ricerche per quasi quarant’anni e metterci quel qualcosa in più che mi dava l’amore per te. The power of love diceva quella canzone che ci piaceva tanto.
Il settimo nervo cranico l’ho intercettato senza fatica, la batteria al gel non era più grande di un francobollo e stava nascosta facilmente sotto i tuoi lunghi capelli. Sentirti ridere di nuovo è stata aria fresca nella tomba in cui stavo rinchiuso da un anno. L’ho chiamato Sorrisogeno e quando hai sentito questo nome tu hai sorriso per la prima volta davvero con la tua bocca bellissima. Funzionava d’incanto: tu mi guardavi, lui si attivava e il tuo sorriso illuminava la stanza come se non fosse mai successo nulla. Poi ho cominciato a lavorare al Lacrimoforo. Il sorriso non vale nulla senza le lacrime. La stimolazione del sistema limbico è stata più complessa da realizzare e temo di averti fatta soffrire un poco prima di metterla a punto. Ma che risultato! La prima volta che hai pianto guardandoti il braccio destro immobile e la gamba su cui non avevi potere, ho sentito che eri tornata un essere umano e sono stato fiero di me. Di quello che stavo facendo per te. Il Generatore Onirico te l’ho regalato per il tuo primo compleanno dopo la malattia. Non mi hai mai potuto raccontare i sogni che ti procurava ma io ti guardavo sorridere mentre dormivi e sono certo che fossero bei sogni. Chissà se c’ero io.
Ricordo che un giorno, mentre mangiavo svogliatamente una pizzetta al bar dell’ospedale, ho pensato che con quelle flebo schifose che ti tenevano in vita forse non ricordavi neanche più il sapore del pane caldo o quello di una mela profumata. Sperimentai il Gustatore collegandolo al mio nervo trigemino e ci misi settimane prima di trovare l’intensità delle microstimolazioni che corrispondevano ai vari sapori. Assaporai schifezze innominabili prima che fosse pronto. Alla fine sembrava un piccolo apparecchio acustico e non faceva il minimo rumore. Lo sistemai al tuo orecchio destro e all’ora di pranzo lo attivai. Ti regalai in sequenza un menù completo, dall’antipasto al dolce. Tu sorridevi grazie al Sorrisogeno e insieme piangevi con il tuo Lacrimoforo attaccato e intanto io ti offrivo Passito di Pantelleria e Tiramisù al Grand Marnier. Fu un grande trionfo. Ogni giorno da allora ho studiato per te piatti diversi e prelibatezze degne della più alta cucina. Ora ero davvero pronto per la sfida più difficile.
Quando una persona parla usa decine di muscoli e almeno otto aree cerebrali distinte. Ci misi più di un anno a risolvere l’enigma. Ti parlavo dei miei progressi e tu guardavi fuori dalla finestra, al solito, con i tuoi capelli grigi tagliati corti che nessuno più tingeva. Ogni tanto sorridevi. Ogni tanto ti addormentavi e sognavi con il tuo generatore onirico che vibrava appena.
Ti misi quella piccola cuffia il giorno della vigilia di Natale con le mani che mi tremavano. Speaker l’avevo chiamato. Schiacciai il pulsante dell’accensione e attesi che succedesse qualcosa. Muovesti lentamente la bocca, facesti una smorfia e io sentivo il mio cuore nelle orecchie martellare come il pistone di un piroscafo. Poi arrivò la tua voce un po’ roca ma inconfondibile. Io piangevo come avessi il Lacrimoforo attaccato. Tu te lo ricordi cosa mi dicesti? Te lo ricordi cosa mi dicesti dopo tutto quel tempo di silenzio?
Mi dicesti che non ne potevi più e volevi morire. Che nemmeno del mio amore ti importava più niente e neanche del tiramisù e dei bei sogni. Mi dicesti che quella non era vita e mi pregasti di lasciarti libera. Io ti promisi invenzioni straordinarie, ti promisi anche quello che non avrei mai potuto mantenere. Tu non parlasti mai più e ti limitasti da quel momento a scuotere impercettibilmente il capo, per quello che potevi. E io non ti vidi più sorridere né piangere né sognare.
Per questo sono venuto oggi qui in piedi davanti alla tua foto a ricordarti quel nostro ultimo tempo strano e pazzo e quelle mie inutili invenzioni, amore mio, in cui ho messo tutto me stesso, che non era abbastanza. Per chiederti perdono, mia unica, mia amica, per non essere stato capace a far di più.