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corpo dell'amata, Foto, Ivano Ferrari, Ivano Ferrari racconti, percezione della realtà, Racconti, Racconto, realtà, ricordi, tempo
Lei dormiva sulla pancia con le braccia intorno al cuscino. Avevano fatto l’amore di pomeriggio che è l’amore più bello che esista, quando il sole proietta nella stanza strisce parallele di luce dalle persiane, o un pallottoliere di piccole sfere, attraverso le tapparelle. Aveva la gamba sinistra stesa che finiva con la pianta di un piede che avrebbe riconosciuto anche senz’occhi. La gamba destra era piegata e si curvava in un gluteo che aveva la circonferenza che è delle cose del mondo, degli orbitali atomici e dei tornanti dei passi alpini che percorri guidando assorto quando finisce il disgelo. Il solco tra le natiche era un percorso d’ombra, un mistero, un invito che sfumava nei lombi per ricominciare più in alto, meno profondo, a percorrere la lunga esse della schiena come una roggia scavata dall’acqua piovana. A destra, poco sotto l’ascella, sporgeva un seno pieno, schiacciato dal peso del corpo. In alto i capelli erano una voragine nera sulla federa chiara.
Lui stava a guardarla così, dalla cassapanca ai piedi del letto, seduto a picco su quel senso di benessere che si ha nella pelvi quando si è fatto bene l’amore. Di dormire non se ne parlava. Chiudere gli occhi significava spegnere la luce e perdere quello che aveva di fronte. Una cosa rara e magnifica e fugace come un arcobaleno o un’eclissi. Era prezioso quel corpo che continuava a percorrere con gli occhi per non romperne l’immobilità. Si sentiva grato per aver ricevuto il dono immenso di averlo per sé. Si scoprì a rammaricarsi di non avere una macchina fotografica per fermare quello che stava vedendo e quando lei si svegliò, gliene parlò.
“Le foto che ti farò non le mostrerò a nessuno al mondo, -le disse- servono solo a me. Voglio averti per sempre bella come sei adesso. Perché quello che vedo ora quando ti guardo non posso accettare svanisca. Non posso”.
Ci aveva messo un po’ ma alla fine l’aveva convinta.
“Se mi devi fotografare, devo farmi bella e mettermi in forma che tu ti ricordi di me al mio meglio” disse lei accettando. .
Lui concordò perché desiderava che le foto fossero proprio come avrebbe voluto ricordarla.
Da quel momento per molto tempo lei si prese ogni giorno un po’cura di sé. Le mani, i capelli, la pedicure, la ginnastica. Passarono molti mesi finché lei non gli comunicò di sentirsi pronta.
Le scattò decine di foto come si mettono da parte provviste per l’inverno, come si seccano fiori tra le pagine, come si lasciano mappe per ritrovare tesori, come si sotterrano chiavi che riapriranno serrature di mondi scordati.
Ma quando guardò le immagini rimase deluso. Erano molto distanti da quello che avrebbe voluto conservare per dopo.
“Sei tanto bella, davvero, ma adesso devo chiederti di impegnarti ancora. Devi fare uno sforzo per essere ancora più bella perché queste immagini non ti rendono giustizia”.
Passarono ancora mesi e lei si impegnò per essere all’ altezza di un ricordo davvero perfetto. Riprovarono ancora una volta e ancora una volta lui scosse il capo.
Poi successe come succede nella vita, quando le cose pratiche si arrogano il nome di cose serie e si mangiano tutto, comprese le cose serie. Per molto tempo le foto vennero dimenticate.
Aveva lo stesso lucore quel pomeriggio d’estate di tanti anni dopo. Dalle persiane socchiuse l’estate filtrava come un ronzio di caldo e pulviscolo e ancora le linee di luce e di ombra disegnavano sul letto una gabbia in cui stava racchiuso il corpo di lei che dormiva, come un uccello esotico.
La gamba destra piegata di lato era come il meandro di un fiume in pianura. Le braccia intorno al cuscino erano ali. Il solco tra le natiche precipitava in un piccolo pozzo d’ombra. I capelli grigi erano come una nuvola nel cielo della federa a fiori.
“Chi l’avrebbe mai detto? – pensava lui sulla cassapanca mentre se ne stava seduto su quel senso di nostalgia e di vuoto che c’è nella pelvi di un uomo dopo che ha fatto l’amore- Non avevo alcun bisogno di farti quelle foto”.
“Pensavo mi sarebbero servite a ricordarmi com’eri, quando non saresti più stata così e tu invece, dopo più di quarant’anni sei rimasta esattamente com’eri quel giorno. Identica in tutto e per tutto. Che strano miracolo. Che grande dono.”