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Chi ha sperimentato nella propria vita anche solo una volta l’attesa in un Pronto Soccorso comprenderà senza fatica come potevo sentirmi dopo più di quattro ore trascorse in quella sala d’aspetto puzzolente con il pollice destro che mi faceva un male feroce e la prospettiva di dover attendere ancora per chissà quanto. Per ingannare il tempo avevo cercato di distrarmi in ogni modo, avevo giocato con il telefono, mi ero guardato intorno con spirito da documentarista e avevo fatto riflessioni esistenziali di inaudita profondità che ora non saprei riferire. Purtroppo i miei stratagemmi a nulla erano serviti: lo spettacolo del dolore, i visi tirati dei parenti, il ciabattare dei medici e degli infermieri che trascinavano per il corridoio il loro cinico distacco, tutto intorno non aveva fatto che accrescere la mia voglia di alzarmi e scappare. Stavo per arrendermi definitivamente quando la mia attenzione fu attirata da qualcosa che mi incuriosì fino a farmi scordare ogni proposito di fuga.
Stava vicino all’entrata della sala visite, probabilmente in procinto di essere chiamato, un ragazzo tra i venti e i venticinque anni, di bell’aspetto, di carnagione olivastra e capelli scuri, che attendeva il proprio turno con aria rassegnata. La sua espressione era diversa da quella che si leggeva sui volti di tutti gli altri pazienti: era serena, comunicava una sorta di forza tranquilla, di indifferenza e di superiorità allo stesso tempo. Si guardava intorno come chi si trova in luogo lieto e si aspetta di trovare da un momento all’altro qualcosa di gradito o di interessante. Quando il suo sguardo incontrò il mio subito si affrettò a salutarmi con un bel sorriso cordiale. Vedendo che ricambiavo il saluto mosse agilmente la sua sedia a rotelle verso di me.
Aveva un delizioso accento napoletano e un atteggiamento che avrebbe fatto venir voglia di parlare anche ad uno con un pollice frantumato in attesa da ore al pronto soccorso. Da lì a pochi minuti ci eravamo detti quasi tutto quello che due estranei possono dirsi in un luogo come quello. Parlammo del mio dito a cui volle dare un occhiata a tutti i costi, mi raccontò la ragione per la quale era lì (che non mi sembrò cosa grave) e facemmo i soliti commenti di disapprovazione sullo stato della sanità pubblica in Italia. Ad un certo punto, non ricordo come fu, venne spontaneo chiedergli che cosa lo avesse ridotto su quella sedia a rotelle.
“Davvero vuoi sentire la mia storia?” disse sorridendo. Mi aveva dato del tu fin dal primo momento ma la cosa non mi aveva minimamente infastidito.
“Se ti senti di raccontarla…”
“E come no? Tanto tempo ne abbiamo quanto ne vogliamo!” e si fece una bella risata contagiosa.
“Tutto è cominciato a Capodanno di cinque anni fa. Sai come facciamo noi giù a Napoli: i botti, gli scoppi, i petardi, i missili, la contraerea. Qualcuno pure usa le pistole, se ne ha in casa, per fare più rumore e spendere meno. Se la polizia volesse scoprire tutte le pistole non denunciate che ci stanno a Napoli basterebbe un bel blitz in grande stile la notte di capodanno e potrebbe trovarle tutte in mano al legittimo, anzi all’illegittimo, detentore!
Comunque quella che avevo io quella sera era regolarmente denunciata. Era di mio padre che fa la guardia giurata. Stavo sul terrazzo in cima alla casa con il mio fratellino di dieci anni e sparavo in aria come un bandito in un film Western. A un certo punto lui cominciò a chiedermi di provare a sparare un colpo. All’inizio dissi di no, è logico, che non se ne parlava nemmeno, ma lui a insistere e insistere, hai presente come fanno i bambini. Alla fine mi lasciai convincere. Gli spiegai che doveva puntare in alto e tutto il resto ma quando fu il momento di premere il grilletto, la pistola si rivelò troppo pesante e io ebbi paura che il colpo sarebbe partito troppo basso, magari verso le case e così cercai di alzargli la canna all’ultimo momento. Fu così che il colpo partì e mi colpì in pieno. Proprio in mezzo al petto.”
“Ho capito” dissi io con aria compresa.
“Ma che hai capito?” fece lui sorridendo “non è andata come pensi tu! Il proiettile passò a lato dello sterno, tra due costole, sfiorò il cuore, i grossi vasi, schivò la colonna e uscì dall’altra parte senza fare nessun danno. Quando arrivai in pronto soccorso mi fecero cento analisi, una tac, poi mi diedero un punto davanti, uno dietro e mi dissero che non avevano mai visto una cosa del genere, che le probabilità che potesse succedere una cosa così erano una su un miliardo, che si trattava di un miracolo.”
“Ma… e quindi… non è stato così che…?”
Mi fece cenno di pazientare e proseguì.
“Ma io l’avevo capito bene che quello non era stato un miracolo né una combinazione. Ci doveva essere di più. Dopo averci ben riflettuto arrivai all’unica spiegazione possibile. Io ero invulnerabile. Ero immortale.”
Lo osservai con espressione neutra. Non c’era ombra di ironia sul suo viso.
“Cominciai a vivere come vive un immortale. Beffandomi della morte. Fottendomene della morte. Guidai a centottanta all’ora nel buio, feci acrobazie inimmaginabili con la moto, sfidai i potenti, provocai i prepotenti, me la risi della gravità, della malattia. Nulla mi poteva fare male.”
Lo guardai con un lieve senso di vertigine.
“Dovresti provare quello che si sente ad essere immortali. La paura scompare dalla tua vita e qualsiasi cosa tu voglia fare, semplicemente la fai e ti riesce. Salvai bambini caduti in mezzo alla strada nell’ora di punta, fermai una macchina di rapinatori parandomi davanti a loro a mani nude, saltai dal quinto piano dentro un camion di pomodori per scommessa. La gente cominciò a parlare di me. Superman mi chiamavano. Un camorrista che avevo sfidato mi sparò contro una raffica di mitra in pieno centro riducendo la mia macchina ad un colabrodo. Voleva darmi una lezione e dimostrare che Superman poteva morire come tutti. Io niente. Illeso. Quello si fece il segno della croce e scappò via. La notizia fece il giro della città. Divenni una specie di giustiziere. Raddrizzavo torti, aiutavo i poveracci, i deboli. I malvagi scappavano via appena mi vedevano. Arriva Superman! e se la davano a gambe senza neanche reagire.”
Mentre il ragazzo proseguiva il suo racconto forse avevano chiamato il mio nome dalla stanza delle visite. Non avrei potuto giurarci e nemmeno me ne accertai: ormai mi importava solo di sapere come sarebbe andata a finire la storia.
“Un pomeriggio mi riferirono che qualcuno andava dicendo in giro che io ero un fanfarone, un quaraquaquà, che la storia dell’immortalità era una bugia. Le voci le avevano messe in giro i delinquenti a cui davo fastidio per screditarmi. Ne andava del ruolo che mi ero guadagnato. In un attimo presi la decisione. Sparsi la voce che mi sarei fatto trovare alla sera nella piazza del quartiere e avrei dimostrato a tutti che io bugie non ne dicevo. Mi presentai insieme al mio fratellino con la pistola di papà. Davanti a tutti gli chiesi di spararmi al petto come aveva già fatto una volta. Lui lo fece, povero piccolo. Ed eccomi qui.”
Rimasi in silenzio a lungo, fissandolo negli occhi. Lui mi sorrise.
“E così hai scoperto di non essere immortale” dissi parlando piano
“Sentirsi immortali ed essere immortali è la stessa cosa. Non fa nessuna differenza. E poi non è mica detto: come vedi sono ancora vivo.”
Chiamarono il suo nome e lui diede una spinta forte alle ruote. Mi salutò con il braccio senza voltarsi e la porta della sala visite si chiuse dietro di lui.