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Il campanello di casa del professor Moretti squillò in maniera del tutto inaspettata poco prima dell’ora di cena. Come ogni pomeriggio il professore aveva terminato la correzione dei compiti intorno alle sette ed era intento a decidere che manicaretti prepararsi. La finale si giocava tra uova fritte e minestrina ma quest’ultima si presentava decisamente come favorita dal momento che le uova erano salite sul podio già tre volte nell’ultima settimana. Aveva tempi scanditi come l’orario ferroviario austriaco, il professore, e ancora non sapeva come avrebbe potuto abituarsi a vederli sconvolti quando, tra meno di un anno, sarebbe arrivata l’attesa pensione. Chi stava bussando al suo campanello decisamente non si rendeva conto di cosa significasse turbare le abitudini di uno come lui.
Attraverso lo spioncino vide il faccione deformato di un ragazzo e in primo piano un cappellino con la scritta di una pizzeria d’asporto.
“Non ho ordinato nessuna pizza!” gridò il professore attraverso la porta.
“Lei è Moretti Giancarlo, via Pico della Mirandola 12?”
“Sono io!”
“Allora qui ci sono cose per lei!” disse il ragazzo e poi, vedendo che non riceveva risposta, aggiunse “Tutte già pagate!”
La porta si aprì e il professore ritirò le scatole di cartone con aria sospettosa. Provò a sincerarsi ancora una volta che non ci fossero errori ma non fu possibile chiedere di più: il fattorino era già scomparso giù per le scale. Posò le scatole sul tavolo e le guardò senza aprirle. Faccenda molto strana e inquietante, di quelle che gli piacevano poco. “Temo gli Achei anche se recano doni” disse ad alta voce. Fatto sta che, mentre faceva congetture su chi fossero nella fattispecie gli Achei, dall’inatteso omaggio cominciò a fuoriuscire un profumino irresistibile che vinse ogni residua resistenza. “Che sia!” esclamò il Moretti che aveva l’abitudine di parlar da solo. Fu una scorpacciata memorabile. Calzone farcito con doppia mozzarella di bufala, tiramisù e una bottiglia di Greco di Tufo ghiacciata. Non mangiava così da tempi immemorabili. Dormì come un ghiro quella notte e sognò l’assedio di Troia. La città era assediata da un esercito di pizzaioli. I troiani rovesciavano dagli spalti minestrina in brodo sugli assedianti e le sorti della battaglia erano incerte. Il sogno finiva con la città in fiamme vinta dall’inganno di un grande calzone introdotto nella città e subdolamente farcito di guerrieri. Per tutto il giorno seguente il professore rimase stranito e non riuscì a fare a meno di raccontare lo strano episodio anche ai suoi alunni che si lanciarono in mille congetture assurde. E’ un ammiratrice segreta napoletana, è un pizzaiolo omosessuale, è Saporiti del terzo banco che cerca di comprarsi la promozione.
Quando alle sette e dieci di quella sera, dopo la correzione dei compiti di rito, il campanello squillò di nuovo, il professor Moretti cominciò ad agitarsi senza sapere neanche lui perché.
Attraverso lo spioncino fece la sua apparizione la faccia bombata di un cinese che sembrava un castoro.
“Sì?” gridò il professore.
“Planzo cinese pel lei” disse il cinese parlando come un cinese. “Glatuito!” aggiunse non vedendo la porta aprirsi.
Gli Achei si erano tramutati nell’esercito popolare di Mao Tse Tung.
Scuotendo la testa l’anziano professore spazzolò tutto: involtini primavera, riso alla cantonese, nuvole di drago e spaghetti di soia. Annaffiò tutto con una birra cinese particolarmente gustosa e se ne andò a dormire colmo di perplessità.
Non fece sogni quella notte ma si svegliò agitato. In classe non ebbe nemmeno il coraggio di raccontare la seconda puntata del mistero delle cene a domicilio per non stimolare chissà quali congetture internazionali. Allo squillo della campanella fu tentato di andare a casa, fare le valigie e andare qualche giorno dal fratello a cui non faceva visita da anni. Vinse la pigrizia. Fece su stesso un’operazione di training e riuscì più o meno a convincersi che quegli eventi rappresentassero delle eccezioni a cui sarebbe seguita, a partire da subito, la sua tranquillizzante normalità scandita da compiti, minestrine e uova fritte.
Manco a dirlo.
Stavano suonando le diciannove al campanile della chiesa di fronte quando, quasi per invidia, anche il campanello della sua porta si mise a suonare.
“Non è possibile” pensò il Moretti che però sotto sotto un po’ se l’aspettava.
Stavolta si trattava di un signore distinto.
“Vengo da parte del ristorante “da Stefano””.
Il ristorante “da Stefano” era il miglior ristorante della città. Il signore teneva in mano due panieri da cappuccetto Rosso ma in versione body builder. Chiese il permesso di entrare e apparecchiò di fronte agli occhi esterrefatti del professore una cena luculliana. Il tavolo, che non era abituato a tanta dovizia, quasi vacillò. Il cameriere prima di congedarsi lasciò sulla tovaglia una busta che recava la scritta “Aprire solo alla fine del pasto”, rassicurò, manco a dirlo, del fatto che fosse tutto pagato, salutò educatamente e se ne andò.
La tentazione di aprire la busta afferrò subito il Professor Moretti che però alla fine decise di rispettare il volere di chi l’aveva scritta. Tutto sommato, qualsiasi cosa contenesse, la sua lettura poteva essere rimandata alla fase digestiva. Non fosse mai che aperta prima avesse la capacità di togliergli l’appetito.
Si sbafò cinque portate più una bottiglia di Amarone, dolce e caffè.
Mentre tagliava la busta usando un coltello sporco di panna come tagliacarte venne attraversato per un attimo dal pensiero che lì dentro ci fosse il conto delle tre cene ed ebbe un lieve mancamento. Poi si risolse e lesse.
“Gentile prof. Moretti,
sono Banfi Alfio, si ricorda di me? Ero nel secondo banco della fila di mezzo della IIIA, anno scolastico 1983-84. Scusi se ho scelto questo modo oggi per irrompere nella sua vita ma sento di doverle qualche parola e una confessione. Ricorda la gita scolastica che facemmo quell’anno in primavera? Andammo a Rimini, ricorda? Lei ci accompagnò e con noi c’era la IIIF con la supplente di matematica, Chiarlotti mi sembra si chiamasse o Chiarloni. Qualcuno le fece uno scherzo crudele in quei giorni, credo non lo abbia dimenticato. Ogni volta che arrivava il momento di tirare fuori il pranzo al sacco, il suo mancava. Per tre giorni di fila. E tutti a ridere a crepapelle di lei, ogni volta di più. E lei a diventare rosso, a digiunare e a fingere che non gliene importasse nulla. Anche la professoressa rideva e lei arrossiva. Credo che le piacesse un po’ la prof.
Sono stato io a farle quello scherzo, professore. Il colpevole ero io. Mi dispiace.
Deve sapere, caro professore, che sono malato e i medici quando chiedo come la vedono per me, cambiano discorso. Così ho deciso che metterò a posto tutte le cose che ho lasciato indietro, tutto il sospeso, mi capisce? E la nostra storia era tra i sospesi di cui non mi sono mai scordato. Ho voluto offrirle oggi quei tre pasti che le avevo sottratto per fare una stupida bravata. Spero li abbia graditi. So bene che oggi non è la stessa cosa e che un pranzo al sacco nella primavera della vita vale cento volte il più ricco dei pasti servito nell’autunno della nostra esistenza. Ma io questi pasti glieli dovevo e non ho saputo trovare altro modo per farglielo sapere. Spero li abbia gustati insieme alla sua famiglia e magari con la professoressa di matematica che nel frattempo è diventata sua moglie. Sarebbe bello se fosse andata così.
Alfio Banfi”.
Il professor Moretti rimase immobile con il foglio tra le mani. Rivide se stesso a trent’anni, provò di nuovo sulla pelle la tristezza di quella Rimini fuori stagione, ricordò Banfi o credette di ricordarlo e rivide la professoressa Chiarlotti come fosse lì, di fronte a lui. Poi ripiegò il foglio con le mani che tremavano, lo rimise nella busta e pianse.