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E’ un cane intelligentissimo, gli manca solo la parola.
Quante volte ci è toccato sentire questa frase? Quella del cane che parla è una vera ossessione umana. Le favole, i cartoni animati, i romanzi, i fumetti, gli spettacoli dei ventriloqui sono pieni di cani parlanti. A stare a sentire le fantasie dei creativi sembrerebbe quasi che i cani non chiedano altro a madre natura se non di imparare a parlare. Eppure basta rifletterci mezzo minuto per capire che possedere questa capacità non occupa sicuramente uno dei primi dieci posti nella graduatoria dei desideri canini. E allora, io mi dico, con tutte le cose che un cane desidera ardentemente, ossi, cagnette, prati in cui correre e fiumi in cui sguazzare, proprio a me doveva capitare un cane che si mette a parlare davvero?
Manfredi era stato un cucciolo assolutamente normale. Non lo avevo portato a scuola di caccia allo struzzo, non lo avevo nutrito con la criptonite o con il ginseng, non lo avevo sottoposto a sedute di elettroshock. Lo avevo accarezzato, gli avevo tirato il bastoncino, non lo avevo mai picchiato. Perché allora era successo quello che era successo?
Aveva appena festeggiato il suo primo compleanno, il mio quadrupede. Era in corso la mano decisiva del solito pokerino del venerdì sera a casa mia e una volta tanto la sorte mi stava decisamente favorendo. Avevano tutti mollato il colpo ed era rimasto solo Gianantonio a vedersela con me. Era palese che il tapino aveva da spendersi al massimo una misera doppia coppia mentre io lo studiavo tenendomi al riparo di quattro bei reucci baffuti che si abbracciavano stretti stretti come i Village People. Manco a dirlo lui aveva chiesto una carta sola e io lo avevo imitato per fargli credere che giocassimo ad armi pari. La settimana seguente avrei avuto delle spese e il gruzzoletto sul tavolo doveva essere assolutamente rimpolpato. Manfredi sonnecchiava sulla sua brandina.
“Sei proprio un fesso. Fai una bella puntatina così ti vengo dietro e sei bell’e fottuto”.
La voce era risuonata forte e chiara. Giannantonio mi aveva guardato stralunato, era stato un po’ a bocca aperta, aveva detto “lascio” e poi aveva salutato tutti dichiarando di avere un forte quanto improvviso mal di testa. Avevo appena perso una vincita promettente, un amico e non avevo capito come era successo.
Passai la sera in preda ad una profonda inquietudine. Quello che mi faceva stare peggio era la certezza che la voce avesse pronunciato esattamente le parole che stavo pensando, nel momento in cui le pensavo e nella stessa identica forma. Temevo di aver parlato senza accorgermene, di non avere più controllo su me stesso, di essere sull’orlo di un esaurimento.
Dopo una notte agitata mi ritrovai il sabato mattina presto a passeggiare per la città con Manfredi al guinzaglio sperando di dimenticare la pessima serata. Incappai nell’immancabile collega dalla favella inarrestabile. Dopo venti minuti di tortura medievale riecco la voce.
“Ma sei veramente spietata! Perché non vieni colpita da un’afasia improvvisa? Almeno potrei chiamare l’ambulanza e farti portar via.”
Rimediai un bel ceffone e rimasi lì come un salame. Manfredi per la noia si era sdraiato e immagino facesse pensieri canini. Io, quant’è vero il cielo, questa volta ero sicurissimo di non aver parlato.
“Ricapitoliamo – mi dicevo – Giovanna d’Arco non sono diventato perché la voce l’ha sentita pure la logorroica che, peraltro, proprio in conseguenza di ciò, si è tramutata in una manesca logorroica. Io non ho parlato, di questo son ben certo, e, se mi sbaglio su una cosa così, vuol dire che sono pronto per un ricovero coatto. Manfredi è un cane e quindi…”
Un pensiero demenziale mi folgorò ma per un istante solo.
D’accordo: entrambe le volte lui era presente ma questo che dimostrava?
“Ci manca solo che mi convinca di avere un cane parlante e sono a posto!” disse la voce.
La voce! Era lei! E sembrava provenire da Manfredi, non c’erano dubbi. Il mio primo istinto fu portare la bestiola indemoniata dal veterinario. Per fortuna a quell’ora di sabato non c’era coda.
“Salve dottore, sono qui, ehm, per una visita. Una visita al cane, intendo dire.”
Il veterinario mi guardò come si guarda un povero demente.
“Voglio dire una visita alla laringe del cane. Per sapere, diciamo, se è normale.”
“La laringe?”
“Sì, il suo apparato fonatorio.”
“Fonatorio?”
“Buonanotte! Questo con ‘sta faccia da fesso non ci capisce un’acca.” La voce aveva parlato forte e chiara.
“Ha sentito? Ha sentito dottore? L’ha sentita anche lei?”
Il dottore aveva un assistente che era in grado di tener fermi gli alani con una mano sola durante i piccoli interventi. Venni sollevato di peso e cacciato come un cane, è proprio il caso di dirlo. Questa cosa cominciava a crearmi intorno un certo vuoto sociale, ad essere sinceri.
Nei giorni seguenti feci decine di esperimenti e arrivai a farmi un idea abbastanza precisa della faccenda. Per qualche misteriosa ragione Manfredi funzionava come un dispositivo vivavoce collegato in modalità bluetooth alla mia corteccia cerebrale. Ogni tanto, sempre più frequentemente a dire il vero, si attivava e spiattellava ad alta voce tutto quello che pensavo. Se lui capisse qualcosa di quello che stava capitando non era chiaro. A guardarlo sembrava il solito di sempre.
La faccenda incresciosa era che mi stava diventando impossibile frequentare chicchessia. Qualcuno potrebbe domandarsi che cosa mai me lo impedisse. A costui chiederei di provare a relazionarsi con persone che possono, improvvisamente e da un momento all’altro, venire a conoscenza di qualsiasi suo pensiero.
Ad un certo punto provai anche ad esercitare il maggior autocontrollo possibile su ciò che pensavo ma fallii miseramente in più di un’occasione. I pensieri mi sfuggivano fra le dita come l’acqua da un colabrodo e istantaneamente Manfredi si attivava facendomi fare puntualmente delle figure barbine.
Una volta andai molto vicino al successo con una fanciulla a cui tenevo molto. Ero riuscito a portarmi impeccabilmente arrivando addirittura a produrre pensieri confezionati appositamente per farle buona impressione. Quando Manfredi li aveva spifferati erano sembrati complimenti e gentilezze. Credevo di aver finalmente trovato la soluzione al problema ed ero molto fiero di me. Mi allontanai qualche minuto per andare in bagno.
“Che gran pezzo di gnocca. Se continuo così stasera me la trombo alla grande” esclamò Manfredi in mia assenza. Quando ritornai in salotto armato del mio miglior sorriso scoprii che la fanciulla non c’era più e che il bluetooth di Manfredi aveva un raggio d’azione di parecchi metri.
Mano a mano che il tempo passava mi rendevo conto di quanti pensieri sgradevoli o irripetibili facessi su chiunque. Non me n’ero mai accorto prima. Cominciai a pensare di essere una persona veramente orribile e questo mi precipitò in lunghe riflessioni depressive.
“Sono una persona cattiva” mi dicevo.
“Ma, in fondo, che mi frega?” diceva Manfredi.
Ma la cosa più curiosa, se non fosse stata tragica, era che non solo i pensieri offensivi allontanavano da me le persone. Anche i pensieri neutri e persino quelli positivi e financo quelli lusinghieri sul conto di chi li ascoltava avevano il potere di farli fuggire colmi di imbarazzo. Scoprivo con sgomento che le persone avevano un bisogno vitale della finzione, non potevano sopportare la visione della verità non filtrata dalla menzogna delle parole.
“Facciamo schifo” mi ripetevo sconsolato.
“Mi farei una pizza prosciutto e formaggio” esclamava Manfredi.
Poi arrivò l’ultimo capitolo dell’incubo. Manfredi si settò definitivamente sulla modalità “presa diretta”: parlava senza soluzione di continuità declamando il flusso costante dei miei pensieri. Tutto il giorno li sentivo pronunciati ad alta voce come se qualcuno li leggesse in un microfono e la notte, se mi svegliavo per qualche minuto, lo sentivo lì ai piedi del letto a salmodiare pensieri che non sapevo nemmeno di pensare.
Arrivò il momento in cui mi resi conto di ciò che era diventato ormai inevitabile.
“Mi devo liberare di questo cane” disse Manfredi.
Misi un annuncio su internet.
“Non lo vorrà nessuno. Non è neanche tanto bello” borbottava una voce che proveniva dalla cuccia.
Quando gli misi il guinzaglio per portarlo all’appuntamento ebbi una sensazione di irreparabilità. Il tipo che aspettava aveva un’espressione anonima. Mi montò una rabbia indicibile. Presi a pensare che aveva una faccia da schiaffi, che sicuramente era un imbecille, che non si meritava neanche lontanamente Manfredi. Pensavo queste cose a bell’apposta, sorridendo crudelmente e mi aspettavo di sentirle dette dalla solita voce.
Ma la voce non parlò e non lo fece mai più.
Così come si era attivato quella strano canale si era spento.
Ci misi giorni ad abituarmi. Pensavo più forte che potevo ogni sorta di pensieri e poi attendevo che succedesse quello che non sarebbe più successo.
“Non parlerà più” diceva una voce, ma era la mia.
Non sapevo rassegnarmi al pensiero che i miei pensieri fossero diventati muti e continuavo l’opera di Manfredi con i mezzi che avevo.
Manfredi restò con me ancora molti anni e non parlò mai più.
Io non fui più lo stesso dopo quei giorni. Non so definire come diventai. Diverso è l’unica parola che mi viene in mente.
“Sono strani e ambigui, gli esseri umani” dice spesso la mia voce.
“Mi farei una bella pizza con i funghi” si risponde da sola.