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Questi maledetti cellulari con il loro archivio quasi infinito di fotografie. E’ un po’ come portarsi sempre dietro qualche decina di vecchi album rilegati in pelle con le foto incollate una ad una. Solo che quelli li sfogliavi una volta ogni dieci anni quando riordinavi gli scaffali, questi invece ce li hai sempre sotto le dita. E’ bastata una mezz’ora di attesa dal dottore ed ecco qua. Ho cominciato per noia a camminare a ritroso nel tempo, immagine dopo immagine e dietro una stupida foto di compleanno sei comparsa tu. A sorpresa tu, con il tuo sorriso lucente.
Stavo lì seduto e non riuscivo quasi più a respirare. Il tuo collo, i tuoi capelli, i tuoi orecchini. In un attimo sono scomparso di nuovo nel gorgo dei tuoi occhi e ho rivisto la nostra estate. Quando la mia vita è cominciata. Quando la mia vita è finita.
L’estate è come il Natale. Feroce con le persone non attrezzate per essere felici. Quell’anno avevo deciso che sarei partito da solo per una meta qualunque piuttosto che restare a fingere di aver scelto di restare. Ricordo che uscivo dall’ufficio e tornavo a casa a piedi, attraversando pomeriggi inondati di una luce così chiara che avrebbero potuto essere mattine. Indossavo camicie con le mezze maniche e reggevo la valigetta con la mano destra mentre la sinistra la tenevo sprofondata nella tasca per darmi un tono svagato. Essere a un passo dalla pensione mi consentiva una certa libertà di orario e io ne approfittavo per tramutare il pomeriggio e la sera in un tempo lunghissimo che valeva quasi una giornata intera. Una giornata guadagnata di cui non sapevo che fare.
Ti incontrai sul percorso di uno di quei lunghi rientri. Potrei fingere di non ricordare i particolari ma la verità è che ricordo tutto. Non un fotogramma né un suono di meno. La libreria, la luce che cadeva sulle tue mani che sfogliavano un libro di cui ho impresso nella mente il titolo e il colore, ogni cosa, il tuo vestito, le tue caviglie, la musica di sottofondo, le tue prime parole. Eri bella come pensavo dovesse essere bella una donna, alta quanto serve, magra quanto era giusto, dei colori che preferivo, né più chiari nè più scuri del mio gusto. Eri il ritratto che avrei voluto saper fare di te prima di vederti. Mi parlasti per prima. Ero così ansioso di fare colpo su di te che dissi cose incomprensibili. Passeggiammo, bevemmo qualcosa. Io non ero io. Ero qualcuno a cui stava succedendo qualcosa che guardavo da fuori per riuscire a sopportarne la bellezza.
Ci vedemmo il giorno dopo e quella volta la strada fino alla libreria l’avevo fatta di corsa. Tu eri lì, esistevi davvero. Quando fu la prima volta che venisti a casa mia? Il terzo giorno dal nostro primo incontro. Avevo fatto venire una signora che non chiamavo da tempo a pulire e rassettare il giorno prima. Avevo messo dei fiori sui tavoli che mascherassero il puzzo di uomo solo. Avevo lasciato in bella mostra ogni cosa che potesse fare un buon racconto di me e avevo chiuso a chiave tutto ciò che avrebbe potuto parlarti della mia vita senza lode.
Ti piacque casa mia e forse avremmo potuto fare l’amore quella sera ma io non volli. Tu mi guardasti e capisti, ne sono sicuro.
Giunse l’ultimo giorno di lavoro e iniziarono le odiate ferie. Prendemmo a vederci anche di mattina. Fu lungo il molo che ti scattai la foto che ancora conservo. Eravamo una cosa sola in quei giorni. Io ti sentivo avvicinarti a me ogni istante. Vicino così nessuno mi era mai arrivato.
Mi proponesti di andar via qualche giorno e io accettai. Ti sarebbe piaciuto vedere la Sardegna e io corsi a comprare i biglietti. Te li feci trovare sotto il piatto al ristorante come facevo con le letterine che scrivevo a mio padre quando ero bambino. Salimmo sulla nave tenendoci per mano. Io non mi stancavo di stupirmi che tu fossi così simile a un sogno.
Mi chiedesti di aspettarti mentre andavi alle toilette e io restai lì appoggiato alla ringhiera a guardare la nave staccarsi dalla mia città triste e salpare per il paradiso.
Quella fu l’ultima volta che ti vidi.
Ti cercai per tutta la nave fino a sentirmi tremare. Mi rivolsi al capitano, ti feci chiamare con gli altoparlanti. Pensai che ti fossi sentita male, che fossi caduta di bordo, che fossi morta.
Poi accettai l’unica spiegazione possibile: eri scesa dalla nave prima della partenza.
Appena a terra cambiai il biglietto di ritorno e mi reimbarcai dopo tre ore. Mi sentivo come bruciare di febbre. La mia mente costruiva e smontava congetture folli e vane senza sapersi fermare.
Il primo posto dove corsi fu la nostra libreria. Ero sicuro che ti avrei trovata lì e il cuore mi si sarebbe scaldato e quel morso alle viscere sarebbe scomparso e tu mi avresti spiegato tutto in due parole, chiare, lampanti, indubitabili.
Ma in libreria non c’eri.
Tornai a casa trascinandomi dietro la mia valigia nuova che sul selciato produceva un suono odioso.
La porta di casa era aperta. Dentro avevano preso tutto.
Il maresciallo mi lasciò parlare un poco e dopo due domande fece un sorriso amaro. Mi spiegò che agiscono così queste bande. Una donna piacente aggancia un uomo, spesso solo, si fa portare a casa sua, raccoglie tutte le informazioni utili, a volte duplica persino le chiavi di casa e poi passa la mano ai complici.
Ho rivisto tutto questo in fondo a quella foto. Stavo lì seduto senza rispondere al dottore che chiamava il mio nome e ancora come allora ho sentito che non m’importava nulla di tutti quei discorsi e che l’unica cosa che contava per me è che non ti avrei rivista.
Perché tu mi avevi amato, io ne ero sicuro, qualsiasi cosa pensassero tutti.
Ho rivisto tutte queste cose che non contavano nulla in quella foto ma quel che più importa è che ho rivisto te.
E ho pensato che forse saresti tornata da me un giorno. Sarei entrato nella libreria, ti avrei guardata sfogliare un libro verde, tu mi avresti sorriso con la luce di un pomeriggio d’estate sulle mani e mi avresti voluto di nuovo con te.