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Ho scavato quaranta buche.
Un metro di larghezza per un metro di lunghezza per cinquanta centimetri di profondità.
Le misure tra una buca e l’altra le ho prese precise, con la bindella, senza calcoli ad occhio. Ho lasciato bastoncini infissi nel terreno per segnare il punto preciso dove avrei dovuto scavare e poi sono andato avanti per giorni a tirar su terreno argilloso. Quando il grosso è stato fatto ho pensato al drenaggio, come mi avevano spiegato. Ho raccolto un bel po’ di sassi e di ghiaia, li ho portati coi secchi vicino a ogni buco e li ho gettati sul fondo stando in ginocchio sull’orlo, che poi l’acqua non ristagnasse. Il letame l’ho portato con la carriola. Non bisogna esagerare con il letame che se no le radici si bruciano: è sufficiente mezzo secchio che dia un poco d’aiuto, di più è meglio di no.
Quando alla fine si portano gli alberi bisogna farlo con cautela e senza ferirli: a volte basta strappare un po’ di corteccia e la pianta che è giovane e debole, si ammala e finisce che muore. Così li ho deposti delicatamente uno ad uno sul loro letto di sassi e terra e ne ho ricoperto le radici bagnandole appena, che non si seccassero. I rami in eccesso li ho tagliati, che l’albero dura fatica a mantenerli verdi quando ha tutte le forze impegnate a sopravvivere.
Facevano un po’ pena alla fine con quei quattro rametti sparuti, tutti in fila come carcasse superstiti scampate al napalm o a un olocausto atomico. Li ho guardati con apprensione, nei giorni seguenti, li ho ispezionati, li ho annaffiati e quando è arrivato l’inverno ho tremato per loro come un vecchio padre. Finché il freddo ha reso dura la terra non ho passato giorno senza domandarmi se ce l’avrebbero fatta e quando a primavera li ho scoperti tutti vivi con i loro boccioli mi è sembrato di mettere nuove foglie anch’io.
Ora guardo le fronde e rami sempre nuovi e l’erba che cresce fra i tronchi e vedo i bambini che passano in mezzo a quel piccolo bosco di ulivi che fa parte ormai del paesaggio. Alberi giovani, dalla pelle glabra e liscia, senza nodi.
Sono come gli elefanti gli ulivi, forti e tenaci e questi sono ancora cuccioli. Grigi con un ciuffo verde argentato e una proboscide troppo piccola perché la si veda da lontano. Come gli elefanti sono lenti e davanti hanno ancora tanta strada da fare. Quando saranno adulti e forti e torti, altri cieli saranno questo cielo sopra le loro chiome. Uomini non ancora nati si appoggeranno ai loro tronchi e godranno della loro ombra senza domandarsi nulla. Senza chiedersi chi li ha messi lì così tutti in fila, con che mani e che pensieri, con che faccia e che ricordi e che speranze. Quando è stato. Perché.
Come facciamo tutti noi. Che siamo spettatori distratti, interessati solo alla nostra storia. Che ci sembra la più interessante che sia mai comparsa sulla faccia di questo pianeta dall’inizio dei tempi.
Non ci sarò più quando questi ulivi saranno pachidermi adulti e saggi, ma questo già lo sapevo quando ho iniziato a scavare. Forse come i pachidermi loro serberanno memoria di chi ha scelto questo poggio e li ha presi in braccio uno ad uno, quando erano troppo piccoli per fare ombra. O forse no. Non si sa perché si fanno queste cose. Non si sa perché lanciamo i nostri messaggi in bottiglia verso un futuro da cui non ci verrà risposta. Né perché questi atti senza ragione siano alla fine l’unica cosa che ci rende vivi.