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I miei nonni non buttavano via niente. Se nella vita ti è mancato tutto non riesci più a dare per scontato che le cose che possiedi oggi ci saranno per sempre. Ti viene naturale pensare che ogni oggetto potrebbe non esserci più da un momento all’altro e capisci che ogni cosa può divenire d’un tratto preziosa. Un pezzetto di spago, un elastico, un sacchetto, un vecchio paracqua senza una stecca possono diventare tesori, quando tutto manca. Io di elastici ne ho un sacco alto più di un metro, e di spago a pezzetti, più o meno lunghi, ne ho tanto che se lo metti in fila ci fai dieci chilometri e di ombrelli ne possiedo a centinaia. Tutti aggiustati da me e perfettamente funzionanti.
Il cibo sopra ogni cosa per i miei nonni era sacro e gettarlo un’empietà di cui chiedere perdono all’onnipotente. Io quando faccio il mio giro quotidiano dei ristoranti e delle mense tiro su un tale ben di dio che potrei nutrire un battaglione al fronte ma siccome non ho battaglioni da approvvigionare sono diventato col tempo l’uomo più amato dai randagi dell’intera regione.
Quando sono arrivati quelli che hanno chiamato il cibo che gli eccedeva “calorie inutili” e che hanno coniato i termini “vuoto a perdere”, “usa e getta” e “monouso”, il mondo si è riempito di rifiuti.
Ricordo che da bambino avevo il compito di gettare la spazzatura. Nonostante io crescessi e diventassi sempre più forte, i sacchi erano sempre più pesanti da trasportare, sempre più grandi e sempre più numerosi. Ricordo il secchio in cui mia madre catapultava oggetti a ritmo continuo riempirsi ad una velocità inquietante. Riviste non lette, libri appena gualciti, cibi ancora ottimi colpevoli solo di essere vicini alla data di scadenza, giocattoli quasi nuovi, dentifrici non finiti, vestiti a cui mancava un solo bottone o con piccoli buchi che si sarebbero potuti rammendare senza fatica.
Quando avevo dieci anni il negozio dei miei genitori fallì e trascorremmo il resto della nostra vita familiare nella più nera povertà. Non per questo la quantità di rifiuti diminuì. Gli oggetti o erano nuovi o non erano e ci si poteva rammaricare di non poterne comprare altri ma non per questo si poteva pensare di riutilizzare quelli vecchi. L’immagine più nitida che conservo di mia madre è quella di lei che lancia oggetti nella spazzatura con un espressione disgustata e soddisfatta insieme.
Quando oggi guardo il mio piccolo regno mi sembrano così lontani quei tempi.
Ho cominciato da ragazzo, quasi per gioco. Dapprima mi occupavo solo di giocattoli. Li recuperavo dalla spazzatura e li aggiustavo. Mi faceva felice vederli rinascere. Mi sentivo Gesù Cristo che strappa Lazzaro alla morte, uno che riavvolge il nastro di un destino segnato e lo rovescia.
Poi ho attaccato con i motorini e le biciclette. In breve avevo un parco di veicoli perfettamente funzionanti che neanche un concessionario. Da lì ho allargato il mio campo di interesse a tutti gli articoli possibili. Ho comprato un’ape e all’inizio portavo tutto a casa ma in capo a poco lo spazio non è stato più sufficiente e allora ho preso a trasportarli nell’orto che mio padre aveva comprato verso la fine della vita quando si era messo in mente di prodursi da sè la verdura.
Produrre. La roba che produciamo sarebbe sufficiente per un umanità dieci volte più numerosa e noi pensiamo ancora a produrre.
Con gli anni anche l’orto non è stato più sufficiente a contenere i miei tesori e allora sono riuscito a comprare da un anziano proprietario il campo adiacente, che è veramente sterminato, ad una cifra irrisoria e ho allargato l’attività.
Ho disposto gli articoli in settori e oggi tutto è ordinato come in uno degli assurdi supermercati che infestano le periferie. Quelli dove vendono i doppioni delle cose che già ci sono.
Il mio piccolo regno, però, è cento volte più bello.
La bianca montagna dei sanitari si vede da chilometri: saranno dodici metri di lavandini, bidet e water impilati, tutti come nuovi. Gli elettrodomestici sono sotto una tettoia, che non arrugginiscano. Li ho aggiustati di persona e sono tutti funzionanti: lavatrici, asciugatrici, lavastoviglie, frigoriferi, ghiacciaie, forni, cucine a gas ed elettriche, condizionatori, tritarifiuti, friggitrici, fotocopiatrici, stufe e chi più ne ha più ne metta. Ogni categoria ha il suo posto. Le auto, le moto, i computer, i telefoni, i camion, i trattori. Ogni cosa pronta per quando servirà di nuovo. Ogni cosa lì a dire: “Io aspetto. Ci sarà pur bisogno di nuovo di me.”
Ogni tanto vengo qui, salgo sul tetto del camion più grande, che mi è costato quasi due mesi rimettere a posto, e guardo questo mare di oggetti che sono stati nuovi, che sono costati i sacrifici di tante persone e che infine, dopo averle rese brevemente felici, sono stati accantonati nella foga bulimica di cambiare con cui l’uomo cerca di alleviare il proprio terrore di invecchiare e morire.
Vengo sempre da solo qui e guardo. Ho provato a rendere partecipi altri di questo spettacolo ma nessuno lo ha mai capito. Quanto mi faccia stare bene sapere di avere costruito tutto questo.
E penso che ora finalmente sono pronto per il gran salto. Che posso popolare il mio Eden.
Mettere gli esseri viventi nel mio presepe.
Recupererò tutti quelli che sono stati gettati quando avevano ancora tanto da dare. Anziani, mogli, padri e fidanzate, amici, neonati e animali domestici. Li raccoglierò dagli ospizi, dai cassonetti, dai monolocali, dai cigli delle autostrade e con loro, i gettati via, popolerò questa mia isola di cose strappate alla ruggine e alla muffa. Donerò loro questa terra dove nessuno viene buttato e farò che niente che sia ancora vivo venga mai più chiamato rifiuto e abbandonato all’oblio. Li porterò qua con la mia ape, uno ad uno, e insegnerò loro a rispettare il valore delle cose che esistono che i nuovi nella loro superbia non conoscono. Darò loro una nuova occasione e spiegherò la differenza che c’è tra la via facile e crudele del gettare e quella profonda e umana del riparare. Farò che sentano lo spreco insostenibile che si commette ad essere senza misericordia e li lascerò vivere in pace qui, forti della forza di sapersi perdonare.