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Va bene, lo confesso, con i libri ho un problema. Li rubo, è più forte di me, non li restituisco, faccio finta di niente, spero che il proprietario se ne dimentichi e poi senza alcuno sforzo mi scordo tutto anch’ io e considero la refurtiva come mia da sempre senza che un solo dubbio più mi attraversi la mente. Perché ho tre copie dei Dolori del giovane Werther? Non saprei dire. E cinque Bel-ami? Mistero. Che ci fa un nome che non è il mio scritto a penna sulla seconda di copertina della Montagna incantata? Deve trattarsi di uno scherzo. Oggi ad esempio scopro una copia notevole e di buona rilegatura dei Fratelli Karamazov che non ricordo di aver acquistato. Il che non significa che il libro non sia mio, dio ce ne scampi, ma fatto sta che ora come ora non mi sovviene il momento dell’acquisto. Guarda e riguarda, mi vien voglia di sfogliare il voluminoso tomo. Bella copertina in pelle e, delizia, pagine ancora intonse. Lo annuso, lo sfoglio, lo accarezzo e dopo questo rapporto sessuale la sua provenienza non importa più perché lui è divenuto mio per sempre per diritto d’amor carnale.
Leggo la prima pagina.
“Nel cominciare la biografia del mio eroe Aleksjèj Fjòdorovic Karamàzov, mi trovo in una certa perplessità.”
Godimento. Giungo d’un fiato alla fine della pagina e lì mi prende il bisogno di tondere l’unione con la pagina successiva con quel bel gesto che si faceva un tempo con il tagliacarte. Dal momento che mi trovo sfornito dello strumento mi piego non senza un certo disgusto all’utilizzo di un coltello da formaggio pescato nel cassetto delle posate in cucina. Le pagine si dividono senza troppo danno e all’interno dello scrigno, lì dove mi aspettavo di trovare solo le immortali parole di Fjodor, mi si para sotto il naso un biglietto da cento euro con la sua verde e inaspettata faccia.
Stupore.
Così, giusto per scherzo, senza crederci molto, separo la coppia di pagine successive, la cinque e la sette. Anche qui c’è la sorpresina. Comincio ad agitarmi. Non senza qualche tremor di mano procedo al taglio sistematico di tutte le pagine attaccate e il bigliettone verde non manca mai. Fjodor, che dio lo benedica, non scriveva short novel e il libro ha trecentoquarantaquattro pagine. Alla fine dell’operazione mi ritrovo con ottantasei biglietti da cento euro impilati sulla scrivania.
Calma e sangue freddo.
Vuoi vedere che sono entrato fortunosamente in possesso del piccolo tesoro qui nascosto nel 1934 anno XIII dell’era fascista dall’anonimo tipografo che ha impresso il libro in Torino, come riporta la piccola elegante scritta in terza di copertina? Deve essere sicuramente così. Ho trovato un tesoro attraverso il tempo. Chissà che cosa ha spinto quel mio benefattore lontano a nasconderlo qui. Forse era un ebreo, un perseguitato politico che contava di recuperarlo in un secondo tempo. Sembra il racconto fantastico di un libro questa cosa del tesoro in un libro. Chissà quanti euro costava un biglietto di piroscafo per l’America. Forse….
Euro?
Sono un somaro.
Questa cosa degli euro mi costringe a restringere la finestra temporale. I soldi sono stati nascosti qui in un qualche momento dopo il 2002. Anche se tutto il mio essere si ribella a quest’operazione mi trovo costretto a riprendere in esame la faccenda della provenienza del libro. Il problema è che per quanto mi sforzi non riesco a ricordare nulla. Ci vorrebbe un’ipnosi profonda per riportare a galla il ricordo rimosso e sepolto. Ricordo che peraltro potrebbe anche avere come spiacevole effetto collaterale la restituzione del malloppo.
Provo sentimenti altalenanti. “Che me frega? – mi dico a momenti – M’intasco gli ottomilasei e mi compro tanti di quei libri che faccio il culo alla Feltrinelli.”
“E se i soldi qui li avesse nascosti uno che ne aveva davvero bisogno? Fossero gli ultimi che aveva, quelli con cui doveva pagare i cravattari che se no gli sterminavano la famiglia? Fossero quelli raccolti in una colletta per curare la sua unica bambina affetta da un male incurabile?
E ancora, inevitabile, il quesito fondamentale: “Da quanto diavolo sono qui dentro?”
Mi convinco che devo sapere. Solo avendo di fronte un quadro chiaro potrò decidere.
Riesamino il volume con cura. Salta fuori un piccolo timbro stinto dal tempo sulla costola rossa. Lo esamino con la lente d’ingrandimento. E’ l’indirizzo di una libreria antiquaria. Lì per lì non mi sovviene nulla. Mi metto il libro in borsa, i soldi nella tasca interna della giacca e parto in esplorazione.
Raggiungo con l’autobus la via in cui dovrebbe trovarsi la libreria, scendo, mi avvio lungo il marciapiede e ancora la memoria non mi dice niente.
Quando mi trovo di fronte alla piccola entrata qualcosa in me s’accende. Passavo da queste parti spesso, due anni fa. Venivo a trovare Laura, mia fiamma d’allora, che abitava non distante. Laura. Una fanciulla che conteneva in sé molti opposti primati. Era la più decerebrata capra che mi sia mai capitato di incontrare e la più poderosa fica che il dio delle fiche abbia mai voluto inviare ad un poveraccio come me. Era stato bello finché era durato: quasi perfetto se non si apriva bocca, non per parlare quantomeno. Ma nessun rapporto può andare avanti senza una parola e alla fine lei mi aveva scaricato con i miei libri e la mia “presunzia da studiato”, così aveva detto. Il libro me lo dovevo essere fregato, cioè doveva essermi capitato in borsa, nel corso di una visitina postcoitale alla libreria, lungo la strada del ritorno a casa.
Spingo la porta ed entro accompagnato dallo squillo delizioso di un campanello. Il luogo è d’altri tempi e contiene tesori che mi devo trattenere dal non infilarmi in borsa a due alla volta. C’è una copia anastatica della prima edizione di Moby Dick del 1851 e un numero originale de Il Caffè del 1764. La libreria peraltro appare in abbandono e completamente incustodita. Pazzia, visti i tesori che contiene.
Mi guardo intorno con occhio stupito e mi accorgo che un signore molto anziano sta ingobbito ad un piccolo scrittoio e mi guarda con aria interessata. Il tipo si rivela essere l’ultimo superstite di una famiglia di librai da oltre duecento anni. E’ colto, intelligente, simpatico, curioso. Mi racconta come non venda un libro da più di un anno e si stia risolvendo a chiudere. Ha ricevuto una buona offerta da una di quelle ditte di distributori automatici di bibite e panini che stanno sempre aperte, senza porta e senza personale. Sorveglianza? Nessuno ruberebbe mai un libro, mi spiega. Un cellulare, un computer, un motorino, un portafoglio anche vuoto ma firmato, un orologio anche taroccato, un paio di occhiali da sole, queste cose sì che non puoi azzardarti a lasciarle incustodite manco un minuto. Ma i libri. A chi gli frega più qualcosa dei libri?
Mentre parla sento che mi si spezza il cuore. Mosso da un momento di empatia e benevolenza estraggo il libro dalla borsa e lo poggio sulla scrivania. Il vecchio mi guarda con gli occhi accesi.
“Lei ha rubato questo libro?”
“No! Per carità, no!”
“Mi dica la verità!”
“Glielo giuro no! Faccio il traslocatore. Ho trovato il libro in una casa abbandonata e ho visto il timbro.”
Il vecchio fa un’espressione stanca e triste che fa pietà. E’ a quel punto che tiro fuori i soldi.
“C’erano dentro questi…”
Il vecchio sorride mestamente.
“Pensi che li avevo messi lì apposta. Era un momento in cui credevo ancora che potesse esistere qualcuno che ama i libri così tanto da rubarli. Ogni giorno speravo che entrasse qui e fosse stregato dalla magia dei libri come io lo sono. Di poter vedere nei suoi occhi quella febbre e quell’amore che oggi la gente prova solo per gli oggetti alla moda. A quel ladro avrei lasciato quei soldi perché comprasse altri libri e portasse avanti la sua passione. Vede mio caro, lei fa il traslocatore e forse non capirà , ma io penso che oggi le persone che amano i libri dovrebbero essere protette come le tigri del bengala in estinzione, come i panda e i falchi pellegrini!”
Rimango a guardare il libraio con la bocca semiaperta mentre getta tristemente i soldi in un cassetto.
“Ora se non le dispiace dovrei chiudere.”
Esco sulla strada e mi avvio verso casa con il cuore nei calzini. Dopo cento metri mi volto di scatto e corro indietro deciso a spiegare tutto al vecchio libraio.
Sulla serranda chiusa sta appeso un piccolo cartello vergato a mano.
“Chiuso per rinuncia” ci sta scritto.
Ero io l’ultimo panda e nessuno lo saprà mai.