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“D’accordo architetto, perchè lei è un architetto, giusto? Ricordo bene? Visto che ha insistito cosí tanto per avere questo appuntamento, eccomi qui tutto orecchi. Dica pure”. Il sindaco settò la propria mimica facciale in modalità “ascolto” mentre pensava a che scusa inventare per liberarsi del tipo nel caso in cui si fosse trovato ancora nella stanza tra un quarto d’ora, a voler proprio esagerare. “Dunque, signor Sindaco, innanzitutto desidero ringraziarla…” “Dovere, dovere, architetto, non si preoccupi. Ma la prego, vada pure avanti.” “Si. Certo. Dunque, io sono qui a proporle un nuovo e innovativo piano per rendere la nostra città compatibile con i diversamente disabili. Si tratta di interventi dal costo modesto che però…” “Mi scusi. Voleva dire con i diversamente abili. Peraltro la nostra amministrazione ha ottemperato a tutte le norme previste a riguardo.” “No, no signor sindaco. Non mi sono sbagliato. Intendevo esattamente dire “diversamente disabili”. Nessun errore”. “Non capisco di cosa stiamo parlando”. “Se mi permette le spiego in due parole, signor sindaco…” Il sindaco venne preso dallo sconforto. La cosa rischiava di andare per le lunghe, altro che quarto d’ora. “La prego, ma cerchi di essere conciso”. “Si, le dicevo, la diversa disabilità è una condizione estremamente diffusa. I diversamente disabili sono persone che paiono non avere alcun handicap e invece sono portatori di gravi menomazioni che limitano la loro libertà e rendono la loro vita mutilata e prigioniera. Le faccio qualche esempio. Abbiamo le diverse disabilità della deambulazione: persone che salgono le scale, camminano per strada, guidano la macchina ma non sono in grado di accompagnare a passeggio un anziano, di fare due passi con la moglie, di correre insieme ai propri figli, che non riescono a piegarsi sulle ginocchia per prendere in braccio un bambino. Ci sono gli ipovedenti, che leggono il giornale ma non vedono la sofferenza, le domande che stanno negli occhi delle persone che amano, che non sono capaci di vedere se stessi e sono resi ciechi ogni giorno dall’avidità o dall’arrivismo. Ci sono i muti, che parlano al telefono per ore ma non sono in grado di pronunciare parole di comprensione, che non sanno dire ti amo o scusami, che sono impossibilitati ad essere sinceri. Che non sanno cantare, recitare, ridere, urlare per gioire o solo per incitare qualcuno che ha perso il coraggio. Ci sono i non udenti, che sentono tutto quello che vogliono sentire ma non sono capaci di ascoltare la voce dei bambini, la canzone del vento, il richiamo dei bisognosi”. Il sindaco osservava l’architetto come pietrificato. “Bene. La mia proposta è di creare parcheggi, aree dedicate, punti di incontro per i diversamente disabili, in maniera da favorire il loro reinserimento nella società e il loro recupero. Adotterei il colore rosso contrassegnato dall’acronimo DiDì per identificare le strutture a loro riservate. Immagino parcheggi nelle vicinanze delle scuole, degli asili, dei ricoveri per anziani, che consentano ai DiDì di abbandonare la macchina e imparare progressivamente a camminare di nuovo insieme ai loro cari, tanto per fare un esempio. Specchi per le strade per imparare a vedersi, postazioni con libri di poesia per riabituarsi a sentire. Si potrebbero creare, vado così a braccio, corsi di recupero tenuti per loro dai diversamente abili. Una persona sulla carrozzella potrebbe insegnare loro il valore del camminarsi accanto, un non vedente potrebbe insegnare a un DiDì a vedere quello che è difficile da vedere per passare a quello che non si vuole vedere fino a giungere a quello che fa male vedere. Mi scusi, signor sindaco, mi sono un po’ fatto prendere la mano ma credo che lei abbia capito”. La faccia del sindaco assomigliava in tutto e per tutto ad una maschera del teatro kabuki. In pochi secondi un piccolo treno di pensieri transitò a tutta velocità per la sua mente. A fare da locomotiva c’era il pensiero che l’architetto fosse matto come un cavallo, poi seguiva il vagone che conteneva la consapevolezza dolorosa di quanti anni fossero passati dall’ultima volta in cui si era chinato a prendere in braccio il figlio e come questo non fosse ormai più possibile dal momento che il bambino aveva compiuto diciassette anni pochi giorni prima e lui manco se n’era accorto. In fondo al convoglio veniva il pensiero che tra sei mesi ci sarebbero state le elezioni e lui non poteva perdere tempo dietro a queste cazzate. Questo fu il vagone che si fermò in stazione. “Caro architetto, il suo progetto è molto originale e non privo di interesse. Lasci pure qualcosa di scritto al nostro ufficio tecnico e l’amministrazione, compatibilmente con i suoi innumerevoli impegni, non mancherà di farle sapere qualcosa. Ora, se non le dispiace, avrei una riunione importante che mi attende. È stato un piacere conoscerla, architetto, davvero. Un vero piacere.”