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Ti piace frugare nella mia borsa, chiedermi la funzione degli oggetti che tiri su uno alla volta come in una pesca miracolosa.
Li cogli, li esamini, e se la mia spiegazione ti soddisfa, li deponi di lato e ti rituffi.
Ora, ad esempio, brandisci tutto fiero il fonendoscopio. Lo soppesi, lo rigiri nelle mani, lo riconosci per averlo visto in mille film.
Guardandomi per controllare se godi della mia approvazione, provi a metterlo alle orecchie, poi ti risolvi a chiedere il mio aiuto e fai una smorfia, una volta che è posizionato, perchè non t’aspettavi ti stringesse e ti facesse quasi un po’ male.
Ti faccio sentire, per guadagnarmi il tuo sorriso, amplificato il suono del mio dito che picchietta sulla membrana.
Poi di colpo ti si illumina lo sguardo.
Posso sentire il tuo cuore?
Chissà perché mi coglie di sorpresa questa tua richiesta.
Chissà perché accelera il ritmo questo cuore che vuoi sentire mentre mi apro la camicia e poggio lo strumento un po’ a sinistra, dove lo so sepolto.
Ricordo quei giorni in cui stavi in ospedale e potevo vederti solo da lontano. Quello che significava per me il pulsare ritmico che distinguevo sotto la pelle bianca e tesa del tuo collo nudo e potevo sentire con gli occhi. E ancora prima, quando eri invisibile per me dentro tua madre, celato come lo è il mio cuore per te adesso. Sapere nel rimbombare artificiale dello strumento il senso della tua presenza, i tuoi passi che ti avvicinavano a me, al nostro primo incontro.
E mi sembra che si sia rovesciato qualcosa in questo tuo volermi ascoltare. Come se in questo gesto di udire non possa che esserci una premura, la ricerca di una rassicurazione che è di chi accudisce, di chi si preoccupa, di chi protegge. Che è di un padre o di una madre.
Perché allora vuoi sentirmi, perché non mi hai chiesto di sentire il tuo stesso cuore?
Sono come totalmente nudo, come mi consegnassi tutto alle tue piccole orecchie mentre tieni la bocca socchiusa e gli occhi persi in attesa che lungo i tubicini neri ti arrivi il suono che attendi.
Quando ci siamo conosciuti non ero più giovane come all’arrivo delle tue sorelle più grandi. Ero un po’ più prudente e un po’ più fragile e ogni notte, almeno una volta, venivo in pellegrinaggio da ognuno di voi per farmi sicuro dei vostri respiri. Ma vicino al tuo piccolo letto facevo una sosta più lunga.
Mi inginocchiavo e approfittavo del tuo sonno invincibile di bambino per appoggiare l’orecchio sul tuo petto già largo di piccolo uomo.
E ascoltavo il tuo cuore che mi consolava come mi consolano tutte le cose che continuano ad esistere nonostante la notte che vorrebbe tutto sospeso. Lo scorrere d’acqua che si versa senza sosta nella vasca del lavatoio, le campane dell’ora e della mezza, i treni, il ronzare dei frighi, l’inseguirsi incessante dell’autostrada sul suo tapis roulant di gomma e stridori.
E il tuo cuore. Che la forza di un bacio ha scagliato oltre le nostre vite.
Si accendono i tuoi occhi. Mi hai sentito.
Ti guardo incredulo emozionarti come il mio fosse il battito del bambino che vegli o che aspetti.
Poi mi abbracci e mi tieni così.
La parete del mio cuore pulsa e urta ritmicamente la tua. Durasse solo adesso questo incontrarci per via, durasse solo adesso, egualmente sarebbe un motivo per tutto. E nemmeno dio lo potrebbe più cancellare.