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Ivano Ferrari, Ivano Ferrari Genova, Ivano Ferrari racconti, letteratura, narrare, Racconti, Racconto, scrivere, tempo, tempo passato
Non resta più nulla del tempo che è trascorso, come del carburante dopo che è bruciato.
È l’enormità di questa constatazione che si porta dietro tutto il resto. Quella con cui non si smette di fare i conti tutta la vita, quella a cui non ci rassegniamo.
Abbiamo creduto di comprendere il tempo pensandolo come un fiume. Ci è sembrato di sentir meglio con questa similitudine il suo scorrere senza ragione, perenne, inarrestabile, ma la rappresentazione si è rivelata ingannevole.
Irreale che l’acqua che scende verso di noi dal monte, ciò che ancora deve avvenire, il futuro, si possa vederlo, per quanto indistintamente, solo girando la testa di lato. E ancor più falso che l’acqua che ha superato il punto in cui siamo seduti divenendo il passato, continui ad esistere più a valle e poi ancora nel mare in cui si verserà.
Il tempo non si comporta così.
Il tempo si volatilizza e basta.
Dovremmo forse immaginare di osservarne il flusso seduti sul bordo di una cascata nera di cui non si sente il rombo e dove tutta l’acqua svanisce. Senza prima, solo mentre. E poi un buco nero.
Si annulla, il tempo, una volta che è avvenuto, come un film la cui pellicola brucia mano a mano che scorre. La linea del fuoco incalza dappresso ogni gesto, ogni carezza. Questo è l’inaccettabile.
Di fronte a questa scomparsa senza rimedio la malinconia che sale quando si pensa al tempo passato è un sentimento mal proporzionato, sottodimensionato. Dovrebbe più giustamente essere disperazione, sgomento, smarrimento, panico, perdita della ragione, impazzimento.
Per fortuna o purtroppo ci difendiamo e rimpiccioliamo il problema, per poterlo sopportare. Pensiamo alle nostre singole vite e ci pensiamo a tratti, per giunta. Identifichiamo il tempo perduto con quello delle occasioni e degli eventi, dei capitoli arbitrari in cui suddividiamo le nostre vite, con quello dei giorni che ci hanno visto, degli offuscati ricordi che ci restano, dei pochi fotogrammi del film che sopravvivono all’ininterrotto incendio. Guai se dovessimo percepire anche solo per un momento la somma di tutti i tempi che sono scomparsi, di tutte le vite che il tempo ha misurato, riempito del loro carico immenso di pensieri, di azioni, di oggetti spostati e caduti, di nascite e di scomparse, di epifanie e di strazi. Ne saremmo sopraffatti e distrutti.
Per questa ragione lo riduciamo e lo rendiamo piccolo come le nostre vite, e già ce n’è abbastanza, limitandoci a evocare senza sosta solo il nostro privato tempo scomparso o addirittura proviamo a negarne la perdita, tentando di richiamarlo in vita con rituali magici, come si fa con gli spiriti dei morti, illudendoci di riuscire riportarlo a noi.
Ci proviamo ogni giorno cercandone frammenti impigliati negli oggetti, nelle foto, nei ricordi, nelle lettere, nei cimeli che sono stati testimoni del suo trascorrere e persino nelle persone, che spesso ci sono care quasi solo per questo, per doverci alla fine arrendere al rivelarsi dell’inganno. È fin troppo facile la distrazione che ci fa scambiare le conseguenze con le cause, le tracce con i piedi, i frutti materiali, più copiosi se il tempo è stato speso bene, scarsi se è stato speso male, con le sopravvivenze di ciò che non potrà più essere. Scontato l’abbaglio di confondere il calore che resta nell’aria con il fuoco ormai spento, la distorsione di scambiare il movimento dell’orologio con la mano che lo ha caricato.
Solo nei sogni, e involontariamente, a volte si realizza qualcosa che assomiglia al miracolo. Quando ci troviamo tutti di colpo, con il corpo e con i sentimenti, nuovamente nel tempo passato che sembra scorrerci ancora d’intorno. Certo, il sogno è capriccioso, non si riesce a evocare a comando ed è egoista, sempre e solo rivolto a noi stessi e alla nostra personale ricerca del temps perdu. Ma egualmente qui la rievocazione della realtà, l’imitazione, per un attimo avviene nella sua forma più alta. Qui l’unione di emozioni, immagini, quasi riporta la vita in vita. Se ci fosse il modo di realizzare lo stesso miracolo indirizzandone il flusso, con la stessa forza, la stessa profondità emotiva, saremmo quasi padroni di resuscitare il tempo.
Ed è proprio questo che facciamo tutte le volte che raccontiamo.
Perché i sogni non sono altro che una delle forme, incompiuta e suprema, del narrare.
E se sapremo farci capaci di riempire il nostro racconto anche solo della metà della ricchezza di suoni, di odori, di giubili silenziosi che stanno in un singolo minuto di vita passata, avremo fatto tutto quello che ci è dato per non lasciar cadere mute le esistenze, a svanire sul fondo della cascata nera.
Potremo richiamare chiunque, come medium dai grandi poteri.
Visi alla luce di una lampada a olio, d’una lucerna, di una candela. I pensieri che si consumano futili mentre una scala di legno scricchiola sotto passi noti. Gli uomini che giocano a carte davanti al fuoco, le donne che filano la lana, i giovani che si scambiano sguardi, i bambini che giocano alle ombre o chiedono storie.
L’aria gelida sul viso sbarbato di uno spettatore all’uscita del gran Teatro di Mosca nel 1901. Il turbinio della neve di fronte ai suoi occhi ancora pieni del balletto che l’ha colpito al petto. Le lanterne oscillanti dei coupés che si allontanano nel viale notturno, le urla degli inservienti che chiamano le vetture e i fuochi sotto le costruzioni dal tetto in lamiera a cui si scaldano i cocchieri in attesa del padrone.
Il tempo scandito dalla campana a bordo dei velieri. Due tocchi ogni mezz’ora come comandava la clessidra ogni volta che veniva capovolta. E gettarsi nella cuccetta con i vestiti ancora indosso fradici per il timore di perdere solo un minuto di sonno e pregare il dio dei brigantini di sognare Liz che ha il petto bianco come cera, mentre si spengono nel mistral gli otto tocchi della mezzanotte.
La giornata scandita dal Mattutino, dalle Lodi, dalla Prima, dalla Terza, dalla Sesta, dalla Nona tutto solo per arrivare ai Vespri. E sentire accendersi le orecchie a vederlo lì di lato, dritto in piedi tra i fratelli a cantare i salmi a occhi chiusi e sentire le ginocchia che si piegano e quel pizzicorino tra le gambe di cui non sai il significato.
Se sapremo far questo potremo alzarci in piedi e gridare “Ascoltate! C’era una seconda copia del film bruciato e io ve la posso mostrare!”
E se sapremo farci veramente bravi, almeno per il tempo del nostro raccontare, il fiume sembrerà quasi invertire il suo corso. Il tempo volatilizzato restituirà alla nostra vista i suoi antichi abitanti e brucerà di nuovo accanto a quello presente unendo la propria fiamma alla sua e ne moltiplicherà la luce. E ci verrà concesso di vivere due vite, per un momento, e avere due ceste di ricordi. Perché si possa alla fine cadere nel buco colmi di rimpianti, come si conviene a chi al sopruso non s’è mai voluto rassegnare.