La prima regola è che il destinatario dell’invettiva, della poesia o dell’opera di stampo schifato-indignato sia esterno al soggetto parlante o scrivente. Seconda e terza persona, meglio se plurale, continuano ad essere perfetti e restano nel solco della tradizione.
Voi che. Loro che.
Non riuscirete a.
Non mi costringerete.
Non farete di me, di noi.
Fate questo, fanno quello, fate schifo.
(Ora mi rivolgo a voi, la cui dissolutezza si manifesta non meno della cupidigia di costoro. A voi dico: fino a quando non vi sarà lago su cui non sovrastino le vostre ville, fiume le cui rive non siano adorne delle vostre case? Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, 89)
Sono banditi i discorsi rivolti a sé stessi. L’io è solo un soggetto che asserisce, che si contrappone.
Questa buona regola va incontro al bisogno di affermazione dell’io nel suo zoccolo più duro, pre-logico, e consente di strizzare l’occhio alla paranoia, ingrediente che non manca mai tra quelli base dell’impasto umano. Si accorda inoltre con la contraddizione del sapiens, individuo per un verso singolo e per l’altro indissolubilmente membro della propria specie, specie che cerca e teme, da cui dipende e che al contempo odia. Evoca, nell’antitesi io-voi, noi-loro, il liberatorio “io sono altro da voi”. Pensiero benefico per eccellenza, infallibile, panacea, consolazione, allentatore d’angoscia. Tutto questo senza curarsi della capriola che si compie cercando disperatamente alleati in questa affermazione di unicità. E dimenticando ovviamente di essere contemporaneamente e costantemente il “voi” di qualcun altro che formula lo stesso pensiero, gonfio del medesimo orgoglio.
Ma altro da chi, dovrebbe essere lo scrivente e di conseguenza il lettore che si immedesima, diciamo così, per transfert?
Mai specificare troppo. Voi, loro, tutti, solo certuni, la moltitudine, quelli che non nomino, tu sai di chi parlo, la società, la borghesia, gli ipocriti, i cretini (cioè tutti), qualsiasi cosa sia “non io”. Oppure categorie “contenitore”: gli extracomunitari, i benpensanti, i turisti, i meridionali, i razzisti, i giornalisti, da cui chi ascolta può chiamarsi fuori con facilità aderendo emotivamente all’invettiva, chiunque egli sia o comunque la pensi. (Ora gli uomini in buona fede devono aprire le orecchie, e soprattutto devono spalancarle quelli che sono in malafede. B. Mussolini, discorso di Torino 23 ottobre 1932).
La seconda regola è essere generici. Se si approfondisce, se si specifica, se si contestualizza, diventa un pasticcio, cominciano i distinguo, le sfumature, le eccezioni e mamma mia, per carità. Le verità assolute albergano meglio nel non luogo della genericità. I giudizi possono farsi feroci quando le persone diventano gente (categoria dis-umana, per definizione) ma il giudicante rimane rigorosamente persona (figura dotata di un volto e di un’emotività). Le condanne più feroci si possono applicare se il collo che si offre alla lama non è sormontato da un viso identificabile. Le pene possono essere esemplari se chi le sconta è chiunque oppure nessuno.
Il terzo consiglio è: fingersi portatori di verità universali e immutabili. Mettere dalla propria parte la forza della natura umana e della storia. Frasi preferite: è sempre stato così, da sempre, da che mondo è mondo, per culminare con il tremendo “mutatis mutandis”. Cambiate le cose che si devono cambiare e che, si dia per inteso, sono del tutto accessorie, la sostanza della faccenda non cambia. Si dimentichi assolutamente che le mutandis sono esattamente quelle che fanno la storia e una volta mutatis quelle, la sostanza diventa un sacco vuoto. E svanisce, semplicemente, per diventare un enunciazione astratta.
Quarta regola: mai impelagarsi nelle prove, nella documentazione. Meglio ancora non lanciarsi in discorsi che lo richiedano o se lo si fa, dare a intendere di saperne un sacco senza dimostrarlo. Le motivazioni annoiano e tutti siamo disposti a credere ad un argomento a cui ci fa piacere credere, senza bisogno di uno straccio di prova, molto più spesso di quel che la nostra autostima ammetterebbe. Ricordi inoltre l’autore a cui sono rivolte queste brevi note che l’uditore o il lettore è sempre più disposto a farsi emozionare che a essere in qualsivoglia maniera informato.
Quinto ed ultimo consiglio: non dica mai il nostro autore niente di troppo preciso. Così non si corre il rischio di offender troppo e si reclutano più adepti alla propria causa. Inoltre ricordi che il nulla sta bene con tutto, come il prezzemolo (“Dobbiamo toglierci dalla testa che privato è per forza bello e pubblico è per forza cattivo. Ci sono alcune società privatizzate, come Eni, che stanno bene, e alcune società, come Alitalia, che hanno aperto ai privati e stanno fallendo” Matteo Renzi “chiarisce” la propria posizione sulle privatizzazioni, La 7, 20 novembre 2013).
Se così confezionato, un post, una poesia, una breve e virulenta prosa attirerà l’attenzione di molti, sottintenderà la superiorità morale di chi la condivide, ricorderà al lettore l’unicità e la preziosità della sua persona, lo proteggerà dall’autocritica, placherà le sue pulsioni aggressive, gli darà l’impressione di aver concepito autonomamente un’idea valida e lo indurrà a plaudire.
Ma nell’ipotesi remota che l’Autore nostro, stanco del liquore facile e ubriacante dell’invettiva, stufo degli applausi a poco prezzo, nauseato dalle semplificazioni, dalla brutalità, dalla superficialità, volesse un giorno cercar l’arte, o il ragionamento, più modestamente, è giusto che sappia fin d’ora che è esattamente nella direzione opposta che dovrebbe incamminarsi.
Abbandonare il voi e riprendere in mano il sé, occuparsi di approfondire, di distinguere, di capire, di mettersi nei panni di chiunque e nulla di umano mai più considerare alieno.
Comprendere prima di giudicare e pensare alla pietà prima d’ogni altra cosa e addirittura a quella ancor prima che alla verità stessa.
Che senza il coraggio della pietà l’arte muore come muore ogni pensiero che si voglia umano e insieme a quello ogni speranza, piccola o grande, di verità.