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Etruria, Ivano Ferrari Genova, Ivano Ferrari ginecologo, Ivano Ferrari racconti, un terzo di serbatoio
La strada statale numero uno è ancora per lunghi tratti la paciosa via consolare che attraversava l’Etruria nel secondo secolo avanti Cristo, tra saliscendi morbidi e scorci su una campagna che sa adornarsi di alberi secolari nei punti più ruffiani e puntinarsi di decorativi greggi di ovini.
Da più o meno ventitré secoli i viaggiatori che escono da Roma per la porta Aurelia, oggi porta San Pancrazio, in direzione di Cerveteri, Tarquinia e verso l’attuale Capalbio, quando passano di qui, dove ora sorge l’area di sosta “Il Garofano”, non possono fare a meno di rallentare l’andatura per rimirare il panorama largo e amico, fare un sospiro, scuotere il capo e ripartire già pieni di una nostalgia canaglia che non li mollerà tanto facilmente.
Persino a Daniele, che qui ci spende i giorni, ogni tanto capita di sedersi e guardarsi d’attorno pieno di stupore. Lo fa nelle ore morte quando tra il passaggio di una macchina e un’altra trascorrono intervalli lunghi anche cinque minuti. È allora che rimirare i colli che circondano l’immensa conca al cui centro si trova il suo corpo di ventenne impacchettato nella divisa con gli inserti catarifrangenti (le pompe del carburante alle spalle, le tende del ristoro che promettono con scritta sbiadita un’“ottima cucina toscana”) è tutt’uno col ripetere a mezza voce quasi senza saperlo la misteriosa frase: “Chiamali scemi ‘sti Etruschi”, sentita per anni dal vecchio Ettore quando la sera si sedeva a guardare le medesime cose, prima di andare in pensione.
Sa niente Daniele, che a sedici anni ha lasciato la scuola, di evocare dicendo così un viaggio di navi fenicie dall’Anatolia all’Esperia attraverso un mediterraneo abitato ancora da Ceto e Cariddi e di occhi oblunghi che risalgono la costa tirrenica alla ricerca di una terra feconda. L’unica cosa di cui è sicuro è che si tratta di una frase di ammirazione sincera ed infatti la ripete anche ora, guardando la ragazza che scende dalla macchina, prende lo zaino dal sedile di dietro, chiude la portiera e saluta il conducente.
“Chiamali scemi ‘sti Etruschi!”
“Come dici, scusa?”
“Niente, scusa, parlavo da solo.”
La ragazza, diciotto a dir tanto, capelli lunghissimi e modesta statura, viso da fata con immensi occhi manga, lo guarda e sorride, poi posa lo zaino sul muretto e si siede estraendo il cellulare dalla tasca dei jeans.
Trascorre oltre un’ora in quel modo, con il ragazzo che lavora e la guarda con la coda dell’occhio e lei sempre lì speranzosa a far cenni a ogni macchina che arriva e riparte dall’area di sosta e a rivolgere la stessa richiesta a tutti quelli che varcano la soglia del bar.
“Non è facile trovare un passaggio, sai? La gente non li dà volentieri e quelli che li danno volentieri sono esattamente quelli dai quali è meglio non accettare un passaggio.”
“Madonna! Io non posso mica star qui all’infinito! E tu quand’è che smonti?”
“Mi spiace, abito a tre chilometri da qui. Non ti sarei molto utile.”
“Ma magari vicino a dove abiti tu c’è la fermata di un pullman che va su a Grosseto o a Livorno…”
“No, niente, sei sfortunata. Persino la stazione ferroviaria è troppo distante e comunque non partono treni alla sera.”
Eccola, pensa Daniele, l’ora più bella che arriva, con la luce obliqua aranciata che taglia l’aria come un fendente e accende l’insegna della compagnia in cima al pilone e la fa sembrare d’oro zecchino. Lo ha sempre reso felice quest’ora. Chiamali scemi ‘sti Etruschi.
“Però…”
“Però?”
“Però forse potresti chiedere a Paracarro.”
“Paracarro?”
“Sì, scusa, l’abbiamo soprannominato noi così per via del fatto che sarà venti giorni che sta fermo lì con la macchina” e le indica una vecchia Punto parcheggiata nel punto più distante del piazzale. “Sta tutto il giorno chiuso dentro, esce per mangiare e ogni tanto per andare in bagno. È un signore gentile che non dà fastidio a nessuno ma non abbiamo capito che ci faccia qui. Dal porta targa abbiamo scoperto che la macchina esce da un autosalone di Genova. Magari gli stai simpatica e accetta di darti un passaggio in su e noi con la scusa ce lo togliamo pure dai piedi che la Direzione comincia ad essere infastidita.”
La ragazza lo guarda incuriosita.
“Mi spiacerebbe se lo trattassero male o, che ne so, chiamassero la polizia.” E poi, guardando per terra: “Magari mi sbaglio ma secondo me Paracarro è un bravo cristo, chissà che gli è successo. Forse ha perso il lavoro o la moglie l’ha cacciato di casa.”
“O magari ha ammazzato qualcuno.”
“Naa, ti pare che un assassino passi il tempo dentro una macchina in un posto dove lo vedono tutti?”
“Come ti chiami tu?” gli domanda la ragazza divertita.
“Celletti Daniele e tu?”
“Io sono Lia. Senti, ora dovrebbe venire qui per la cena, giusto? È così che hai detto che fa?”
“E come no? Non lo vedi? Neanche a farlo apposta eccolo lì che arriva! Come volevasi dimostrare.”
Lia lascia che Paracarro le passi davanti ed entri nel ristoro. È sulla cinquantina, ha uno sguardo afflitto e un passo neutro, indifferente, che sarebbe buono per un sentiero amazzonico come per un boulevard della ville lumière.
Daniele le fa cenni disperati. Lia gli fa segno di pazientare, gli fa capire a gesti che coglierà l’occasione all’uscita ma dopo un attimo, inaspettatamente, inforca lo zaino e si infila nel locale. Il ragazzo rimane immobile a fissare la porta. Il doppio colpo di clacson di un cliente lo richiama al dovere.
Non un movimento mostra che Paracarro si sia avveduto del fatto che Lia si è seduta al suo tavolo. Cucchiaio dopo cucchiaio il livello della ribollita scende, ogni tanto il trasporto del cibo dal piatto alla bocca si interrompe, tre dita di vino rosso vengono versate dal quartino al bicchiere, sorbite, la bocca viene nettata con un tovagliolo di stoffa bordato di blu e la teleferica riprende, metodica, ritmica, come se il piatto non avesse un fondo.
“Mi scusi, permette una parola?”
Paracarro non alza lo sguardo e fa cenno di sì con la testa, come fosse ovvio, come se niente fosse possibile di diverso da quello che avviene.
“Non è che per caso sarebbe disposto a darmi uno strappo verso su. Dove le è possibile, intendo. Grosseto, Livorno, magari Genova, se per fortuna lei fosse diretto da quelle parti. Non sa quanto gliene sarei grata.”
L’uomo non alza la testa. Ferma il movimento del cucchiaio tenendolo immerso nel piatto, come fosse pronto ad alzarlo nuovamente in volo da un momento all’altro.
“Mi spiace cara, io non posso muovermi. Non potrei nemmeno volendo.”
La ragazza ha la bocca che tramonta sul mento. Balbetta una scusa e fa per alzarsi ma subito si ferma e si rimette seduta. Quando riprende a parlare ha un tono sommesso, quasi materno.
“Mi scusi se mi impiccio, ma le succede qualcosa? Come mai resta qui come fosse bloccato e non si muove da giorni?”
Paracarro stringe le labbra e socchiude gli occhi, sempre col capo chinato.
“Avanti, mi dica. Fa bene parlare. E con un’estraneo più che con con un conoscente, alle volte.”
“Non ho più benzina, tutto qui.”
“Non ha più benzina? Come sarebbe? Non può farla al distributore? Ha finito i soldi?”
“Sì, ecco, ho finito i soldi.”
“Ma se viene qui a mangiare tutti i giorni vuol dire che non li ha veramente finiti! Mi spieghi meglio, la prego! C’è qualcosa che lei non mi dice!”
Questa volta l’uomo alza gli occhi e li poggia dentro quelli di Lia, quegli occhi incredibili da manga anni ottanta, i capelli che sono la chioma di un albero a maggio, la vita che le esce da ogni molecola.
“Mi chiamo Giovanni” dice.
“Io Lia” dice Lia.
“In realtà non è proprio finita la benzina. Ne ho ancora un terzo di serbatoio.”
“E dunque?”
“Con un terzo di serbatoio non arrivo in nessun posto dove sia mio desiderio andare. Se avessi avuto mezzo serbatoio sarei potuto arrivare a Lucca, magari a Parma. Se avessi avuto il pieno sarei arrivato a Nizza senza problemi, mi sarei seduto al Café de Turin e avrei mangiato ostriche fino a scoppiare. Ma così no. Così mi fermerei comunque a mezza strada, in qualunque direzione mi dirigessi.”
“Metta altra benzina allora, cosa glielo impedisce?”
“Non si può” dice Giovanni “i soldi destinati alla benzina sono finiti, se uso i restanti non ne avrò più per mangiare e per il resto.”
Lia e Giovanni si guardano fissi senza muovere un muscolo.
“Alla fine i soldi finiranno comunque e lei sarà qui con il suo maledetto terzo di serbatoio.”
Il Paracarro ha come una smorfia.
“Ho paura di usarlo.“
Lia gli versa un dito di vino. Giovanni beve piano.
“Ho paura di usarlo male. Non accendo il motore neanche cinque minuti per riscaldarmi quando la notte fa freddo. Penso a quanta strada in più avrei potuto fare guidando in maniera più intelligente. Non so nemmeno da quanto tempo sono fermo qui.”
“D’accordo Giovanni, non si preoccupi. Troverò qualcun altro che mi dia un passaggio. Scusi del disturbo, la lascio mangiare.”
Lia si getta lo zaino sulla spalla destra e esce sul piazzale. L’aria sembra brulichi di fiocchi, di piccoli insetti. Ogni cosa ha contorni tagliati e un colore di miele che toglie le forze. Daniele vede Lia avviarsi verso un gruppo di macchine appena arrivate mentre lava il parabrezza dell’ultimo cliente della giornata. Quel che non distingue di lei per la lontananza ce lo aggiunge, le ciglia che sono raggi a quegli occhi pazzeschi, come disegnati da un bambino, le piccole lentiggini alla base del naso.
Sta contando il denaro del resto, quando si accorge di Paracarro che corre verso la ragazza, la raggiunge, le dice qualcosa.
Poi i due salgono sulla vecchia Punto che ha lo stesso colore di ogni cosa d’intorno, i fari si accendono e la macchina scivola su verso nord con l’incendio a sinistra e la notte che si leva da destra.