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Visto dall’alto Enrico ha la faccia buffa.
“Marco! Vuoi scendere da quell’albero, per piacere?”
Sì, proprio buffa, con quel mento per aria e la testa tonda da cui sporgono le orecchie piccole e trasparenti contro la luce che filtra dal soffitto di foglie.
“Dai Marco, hai rotto le palle! Scendi giù di lì o ti prendo per i piedi.”
Sì, come no. Non ce la faresti a saltare fin qui nemmeno con le scarpe a molla.
“Tu avvicinati e ti dò un calcio sul naso”
“E allora fai quello che vuoi. Resta pure dove sei, io me ne vado a casa”
“Se scendo tu che mi dai in cambio?”
“Se scendi ti dico un segreto”.
Il cliente trasalì appena, come si fosse accorto solo in quel momento del cameriere che se ne stava ritto in piedi con l’espressione di chi attende l’ordinazione da un minuto di troppo.
Stava aspettando qualcuno ma nel frattempo avrebbe preso volentieri un caffè. Grazie.
L’aveva sempre incuriosito quella paziente impazienza di cui sanno far mostra i camerieri, quella mistura di disponibilità e distacco che riassume così bene i rapporti mercantili.
Quanti anni erano che non vedeva Ester? Più di quaranta, il conto era facile. Se pensava alla telefonata con cui l’aveva contattata gli venivano i brividi tanto era stata surreale. Dopo essersi procurato il numero attraverso due o tre passaggi e l’aiuto del solito social si era precipitato al telefono senza pensarci nemmeno un minuto. Solo nell’istante in cui s’era sentito rispondere, aveva improvvisamente realizzato la distanza oceanica che lo separava dalla persona che aveva avuto l’avventatezza di chiamare. Aveva cominciato a balbettare e aveva finito per metterci un quarto d’ora buono per spiegare chi fosse e le ragioni della sua telefonata.
“Sai cosa ci faccio io con i tuoi segreti? E poi tu non hai nessun segreto da dirmi”
“Te lo credi tu! Invece so una cosa che ti lascia a bocca aperta”.
Il ramo di ciliegio scricchiola in un modo strano.
“Guarda che se scendo e poi scopro che non era vero niente, te ne penti!”
“Vedremo se non ho ragione!”
Con i piedi a terra la faccia di Enrico è tornata la solita faccia.
“E allora?”
“Te lo dico in un orecchio”
Quando le guance si avvicinano entrambi sentiamo l’odore acido dei capelli sudati.
Si stava mettendo fresco. L’uomo si sistemò meglio sulla sedia e ricominciò a perlustrare la piazza con lo sguardo. Iniziava a temere che non sarebbe venuta.
Una signora di mezza età passò tra i tavolini e fece per accomodarsi sulla sedia accanto alla sua.
“Mi scusi signora, aspetto una persona”
“Marco? -disse la signora- Sei tu?”
Cercò di dissimulare con un sorriso sbieco la sorpresa che aveva provato. La abbracciò, le tenne le mani e cercando di non guardarla con troppa insistenza, si premurò di domandarle se per caso non desiderasse qualcosa da bere, quindi si affrettò ad alzarsi per ordinarlo di persona.
Camminando verso il bancone la guardò con più attenzione, riflessa nella vetrina del bar, i capelli tinti di rosso, la silhouette menopausale, i vestiti che strizzavano l’occhio alla moda di qualche anno prima. Era identica alla madre, anzi era esattamente lei, la mamma di Ester ed Enrico, come non fosse passato un minuto.
Il cameriere arrivò al tavolo prima che avessero finito la fase dei convenevoli. Reggeva su un vassoio due bicchieri colorati insieme qualche piattino di patatine, olive e altri venefici stuzzichini.
Sono stanco. Il treno puzza di treno ma è tanta la voglia di arrivare a casa che nemmeno ci faccio caso. La bocca mi sta bene chiusa, gli occhi mi stanno bene chiusi. Vorrei non sentire la voce che ora pronuncia il mio nome.
“Marco?”
“Cristina! Che ci fai qui?”
“Io lavoro in centro e tu? Torni dall’università?”
Faccio cenno di sì con la testa.
“Hai più visto qualcuno degli altri?”
No, non ho visto nessuno. Io non vedo mai nessuno. Non ricordi più come sono fatto?
“A proposito hai saputo di Enrico?”
Enrico è mancato.
Quanto la odio questa espressione. Mancato. S’è ammalato, una cosa improvvisa. Enrico è morto. Ecco tu continui a parlare e io vorrei scomparissi. Ricordo anni fa quando l’ho visto dall’altra parte della strada senza riuscire a salutarlo e una volta, persa nel passato, avremo avuto nove o dieci anni, che mi ha fatto scendere da un albero in cambio di un segreto.
Ester camuffò l’imbarazzo di aver finito il repertorio dei convenevoli con un lungo sorso dal proprio bicchiere. Marco la imitò.
Parve che l’alcol le avesse dato il coraggio di arrivare al dunque.
“Marco, come mai hai voluto vedermi? Mi accennavi a qualcosa che ti stava a cuore”
“Sì, certo, hai ragione, scusa. È una cosa, come dirti, un po’ pazzesca.”
Espressione interrogativa, altro sorso.
“Una volta, moltissimi anni fa, tuo fratello mi confidò un segreto. Ho un ricordo nettissimo, quasi fotografico di quel momento. Ho ripensato cento, mille volte a quell’episodio, chissà perché. Ci sono ricordi che tendono a tornare e tornare e tornare ancora, l’hai mai notato? E non sempre sono ricordi importanti, almeno apparentemente. Eppure lo diventano, poco alla volta, vengono prescelti dalle maree misteriose che svelano e celano il nostro passato e diventano segni che ricorrono e ci scandiscono il tempo. Magari, chi lo sa, verranno a farci visita senza ragione anche un attimo prima di lasciare la vita. Forse perché sono come piccole isole che restano emerse, cocuzzoli di montagne dalle radici immani, subacquee o solo perché si sono fissati alla trama grazie all’azione di qualche composto chimico, come macchie indelebili su un lenzuolo. Impossibile dire.”
Ester si soffiò educatamente il naso con un fazzoletto di carta, prese un salatino e lo portò alla bocca, si pulì con un tovagliolino, appoggiò il gomito sul tavolino e il mento sul palmo della mano.
“Ora Ester, il fatto è che io ricordo tutto, ma proprio tutto di quel giorno. Eccetto il segreto.”
Enrico non ha ancora finito di bisbigliare che già comincio a urlare “Ma smettila!”
Lui ride saltandomi intorno e dice: “Lo giuro! Lo giuro!”.
Poi corre a tutta velocità giù per il sentiero frustandosi le braccia e le gambe con i rami e i rovi che se ne mangiano i bordi.
Io lo rincorro nella luce a rischio di rompermi il collo.
Ester rimase con il bicchiere a mezz’aria.
“Ecco Ester, io mi domandavo se per caso all’epoca Enrico avesse rivelato anche a te il suo segreto”.
La donna appoggiò di nuovo il bicchiere senza aver bevuto.
“Ascoltami Marco, come vuoi, cioè, voglio dire, come ti è venuto in mente di pensare che io possa… Io non so nemmeno individuare quando avrebbe potuto succedere quello che dici, se davvero mi abbia mai detto qualcosa che potrebbe essere quello a cui tu ti riferisci. E anche fosse io non ricordo nulla del genere. Ma anche lo ricordassi che importanza vuoi che abbia oggi questa piccola cosa da bambini di quarant’anni fa? Non capisco.”
Non sorrideva più e Marco non ebbe il coraggio di guardarla in viso.
“Hai ragione -disse alzandosi- non so che mi è girato di disturbarti per una cosa simile. Non so che mi succede, sto invecchiando male, perdonami.”
Lasciò una banconota sul tavolino, si scusò ancora, provò a salutare nel modo più cortese e si avviò a passo svelto lungo la strada lasciandosi alle spalle il bar con la donna che gli bucava la schiena con lo sguardo.
Dove finiscono i segreti? I giocattoli nascosti e dimenticati, le pagine di diario, le piccole bugie, gli amori inconfessati. Che ne è di loro quando i depositari sono scomparsi, quando il loro ricordo è svanito? L’osso nascosto dal vecchio cane, il rotolino di banconote in un barattolo della cucina, un certo modo di toccarsi nel silenzio della stanza, il figlio di un altro padre, il punto dov’è nascosto il tesoro, il nome dell’assassino, la forma di un pupazzo di neve che non ha visto nessuno.
È buffo Marco visto dal basso, con quelle gambe penzoloni e la faccia in mezzo alle ginocchia.
È il mio migliore amico e per questo gli confiderò un segreto.