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I due rocciatori alla base del canalone li avevo notati mentre stavamo accoccolati sul gradino d’entrata della pensione Angelina a scaldarci le ossa.
Nonostante fosse Aprile inoltrato, il sole si faceva vedere ancora poco in paese e per farlo sceglieva sempre lo stesso posto e la stessa ora: l’uscio della piccola pensione ancora chiusa per la pausa invernale, a mezzogiorno in punto. Per godere della sua compagnia anche noi ci sedevamo tutti i giorni su quel gradino uno accanto all’altra, soli abitanti del paese, e ce ne stavamo così, come lucertole giganti col viso proteso fuori dai maglioni finché l’occhio di bue si spegneva e sul palcoscenico del piccolo abitato deserto tornavano l’ombra e il solito freddo.
Era chiaro che i due puntolini colorati che avevo visto muoversi lì in alto, primi esseri umani da mesi, stavano apprestandosi a risalire il canale ghiacciato per raggiungere il colle e da lì tentare l’ascesa alla punta G. Strana impresa per quella stagione e pericolosa, oltre tutto, per il pericolo di valanghe.
Ne avevamo discusso brevemente e poi avevamo concluso che delle loro intenzioni ci importava poco. D’altronde non c’era nulla in quei giorni di cui ci importasse davvero all’infuori di noi e della nostra vita eremita fatta di legna, di letture, di sguardi, di tempo al rallentatore.
Poi era successo che nel pomeriggio ci eravamo sorpresi a tornare più volte in piazza per seguire col naso all’aria il percorso delle nostre formiche sul biancore del ghiacciaio.
“Non riusciranno ad arrivare alla colletta prima del buio”.
Il freddo bolliva l’aria e la faceva fumare dalle nostre bocche.
“Faranno un buco e monteranno una tenda”.
Da almeno mezz’ora la neve ammonticchiata lungo i muri delle case aveva cominciato a farsi di pietra.
“Difficile montare una tenda con quella pendenza”.
Da quando eravamo lì, il buio ci aveva sempre trovati nudi davanti al camino. A volte i nostri corpi erano così freddi che la saliva sulla pelle quasi ci scottava, i genitali in mano erano roventi. Poi la serata poco alla volta riempiva i nostri gesti e si tramutava in notte mentre noi mangiavamo cose che fumavano, ridevamo dei nostri giochi, leggevamo ad alta voce e ci mescolavamo fino a cadere nello stesso sonno.
Quella sera eravamo rimasti a guardare il camino in silenzio.
“Io vado a vedere se distinguo le luci di un campo lassù o qualcosa del genere” avevo detto dopo un po’.
“Non me la sento di uscire” avevi risposto, ma poi ti eri vestita in silenzio e mi avevi seguito nel buio.
Per guardare la montagna bisognava mettersi in un punto della piazza al riparo dalla luce dell’unico lampione. Lì nascosti avevamo puntato gli sguardi dove già sapevamo. Una lucciola tremolava più in alto di dove avevamo individuato l’ultima volta la cordata.
“Sono arrivati alla colletta”.
“Sì”.
“Meno male”
“Sì, meno male”.
Eravamo tornati a casa e ci eravamo messi sotto le coperte in silenzio.
Si sentiva fuori, nel viottolo, scorrere l’acqua di una sorgente che si versava senza sosta sulla pietra. Era un acqua insipida e ghiacciata. Sul comodino ne tenevo sempre una brocca piena.
Quella notte verso le tre mi ero svegliato. Nel camino c’era buio, l’odore di brace spenta era desolato e pungente, l’acqua non aveva smesso di scrosciare, i tre tocchi del campanile si erano smorzati subito, quasi senz’eco. Difficile immaginare che, pur in quel silenzio perfetto, fossero potuti giungere fino a quelle tende.
Stavo immobile, con un inquietudine che mi premeva il torace. Mi scoprivo una premonizione, inequivocabile, un presentimento, come se tutto quello da cui eravamo fuggiti, dopo averci lungamente braccati ci avesse trovati senza lasciarci più scampo.
Alla prima luce ci eravamo alzati, senza nemmeno aver preso un caffè, e ci eravamo affrettati verso la piazza.
Sulla montagna non c’era verso di vedere nulla.
Un impacco di vapore grigio nascondeva tutto. Dopo un’ora non eravamo riusciti a individuare traccia degli alpinisti nemmeno a cavarci gli occhi e questo, inspiegabilmente, ci aveva lasciati scossi e infelici.
Mentre tornavamo a casa tu avevi detto le parole che temevo: “Ma siamo sicuri di averli visti davvero? Che fossero persone, intendo dire? E non stambecchi o che so”.
La sera stessa avevamo caricato la macchina ed eravamo partiti.
Sui tetti che ci stavamo lasciando alle spalle, addossati alla roccia, non restava nemmeno il nostro comignolo a fare il suo fumo.
La strada sotto le gomme presto s’era fatta veloce, come una striscia franca tra i campi dove il disgelo andava svelando chiazze di stoppia gialla pigiata dal peso di mesi di neve.
Alle spalle, dietro di noi, il paesino sembrava il disegno che aveva ospitato i nostri disegni.
Noi non lo sapevamo ancora, ma non vi avremmo mai più fatto ritorno.