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La pavimentazione di Piazza della Vittoria cominciò a tremare e sollevarsi verso le quattro e dieci del mattino del venti agosto duemilaquattordici. In breve fu chiaro che a causa di un fenomeno geologico mai osservato in precedenza, il centro della piazza, proprio sotto l’arco commemorativo, si stava innalzando progressivamente a costituire la cima di un colle che andava nascendo sotto gli occhi increduli di tutti. Verso le sette e trenta il vertice della collina era già più alto dei palazzi circostanti. Le auto, gli arredi urbani, tutto quello che era stato nel mezzo della piazza e ora si trovava sui fianchi sempre più ripidi del cono, inesorabilmente scivolava verso i bordi schiantandosi contro i portici dei palazzi circostanti. Le troupe televisive situate sull’antistante rilievo di Carignano documentarono un arresto del movimento ascensionale ad un’altezza di circa centocinquanta metri. Sul vertice dell’incredibile piramide troneggiava, miracolosamente intatto, il profilo bianco dell’arco di trionfo. Fu allora, intorno alle quattordici, che tutto iniziò a tremare. Il rombo che proveniva dall’interno del colle aumentò di intensità progressivamente e il monumento sull’apice crollò su se stesso come risucchiato dal terreno che si era aperto all’improvviso sotto le sue fondamenta. Dalla voragine uscì una colonna di fumo con un’esplosione assordante. Improvvisamente fu chiaro che cosa fosse davvero quella piccola montagna nata dal nulla. Era un vulcano.
Il neonato vulcano manifestò da subito un’intensa attività. Per quanto ovviamente mancassero dati sul suo comportamento pregresso, gli esperti furono tutti concordi nel ritenere molto alto il rischio di un’eruzione a brevissimo termine e nel prevedere che sarebbe stata di grande violenza con un indice di esplosività vulcanica di circa 6, simile a quella che aveva distrutto Pompei nel 79 dopo Cristo.
In città si sparse il panico. La protezione civile, in attesa di approntare un piano di evacuazione e al fine di impedire un esodo disordinato e catastrofico, chiuse le vie di accesso al capoluogo. I giorni presero a trascorrere nell’attesa, scanditi dal ribollire sotterraneo del nuovo terribile vicino con il suo pennacchio di fumo sulfureo visibile da ogni punto dell’abitato. Piccole scosse di terremoto scuotevano più volte al giorno le case senza alcun preavviso snervando gli animi e aumentando l’angoscia della popolazione.
Certi che la fine fosse ormai prossima, le persone abbandonarono le loro abituali occupazioni e presero a comportarsi come non avevano mai fatto fino a quel momento. Ognuno a modo proprio.
La sig.ra Concettina, mentre fuori c’era il coprifuoco e le camionette militari presidiavano le strade alla ricerca di eventuali sciacalli, si rifiutò di essere per l’ennesima sera il pupazzo dentro cui il marito aveva l’abitudine di svuotarsi prima di sprofondare nel suo sonno greve da vino cattivo. Fermò con il braccio la mano che stava per colpirla, si affacciò alla finestra, fece salire la polizia che passava proprio in quell’istante e lo fece portar via.
Michela e Tommaso, che avevano già in tasca il permesso del giudice tutelare per interrompere la gravidanza nonostante la minore età, decisero di non presentarsi all’appuntamento in ospedale e che andasse come diavolo doveva andare. Sarebbero morti sotto la cenere e in caso contrario al bambino in qualche modo ci avrebbero pensato.
Il sig. Vairano si presentò in ufficio, chiese di essere ricevuto dal capo e gli spiegò per quale ragione, a suo modesto modo di vedere, le assicurazioni fossero delle associazioni a delinquere e lavorare per loro roba di cui vergognarsi. Dopo di ciò, con grande calma, staccò dal muro allato della scrivania dell’incravattato il suo prezioso diploma di intermediario assicurativo, lo appoggiò sul pavimento, tirò fuori l’attrezzo e ci pisciò sopra.
Roberto Barrili, agente di pubblica sicurezza, che ne aveva le palle piene delle storie losche del suo ispettore capo, chiese un appuntamento con il magistrato di turno e gli fece un bel discorsetto. E che poi il vulcano seppellisse tutto: lui sarebbe morto più leggero.
Jessica Risso, del peso di trentotto chili per un metro e sessantacinque, guardò le sue braccia piene di cicatrici, alcune bianche e sottili come fili di madreperla ed altre rosse e gonfie come colate di marmellata di lamponi. Quando una piccola scossa fece tintinnare i bicchieri del servizio buono, tirò giù le maniche della camicia, indossò la sua piccola giacca di jeans, uscì di casa seguendo il profumo di focaccia appena sfornata che proveniva dal panificio nel vicolo e ne comprò un bel quadratone da cinque euro. Quindi scese in strada aprì un lato dell’involto di carta, sfilò una parte della focaccia con i suoi piccoli crateri lucidi d’olio e poi diede un bel morso. Si avviò verso il porto antico masticando con lenta dolcezza mentre i Muse le tenevano il cuore sospeso, gli occhi piangevano e la bocca cantava senza emettere suono.
Franco Quadrini, barelliere da quasi un anno in aspettativa dal lavoro per finire il romanzo da cui si aspettava fama e successo, aprì la finestra, aspirò l’odore di cenere che ristagnava nell’aria mischiato a quello della salsedine e capì con certezza che la sua storia fantasy era una cagata illeggibile. Prese il manoscritto, lo mise in una busta di plastica per la spesa e uscì per gettarlo nel vulcano.
Roberto e Francesca che non facevano l’amore da un anno perché erano stanchi, stressati, preoccupati per il lavoro e “perché stavano bene anche così” si chiusero in casa con il frigo pieno di viveri, spensero il cellulare e decisero che la grande eruzione li avrebbe trovati così, come una cosa sola nel loro letto di sposi.
Il professor Gandullia, insegnante di lettere presso una scuola media del centro, dopo aver ascoltato la tirata isterica della madre del solito mentecatto fancazzista vittima a suo dire di reiterate e ingiuste discriminazioni, le tirò un sonoro schiaffone in perfetta surplace.
I consiglieri regionali, dopo aver rilasciato una serie di interviste alla televisione locale in cui ricordavano a tutti lo storico coraggio e l’abnegazione della città medaglia d’oro della resistenza, si imbarcarono la notte stessa, tutti insieme e con nutrito corteo di zoccole al seguito, sul venticinque metri dell’assessore Rotella acquistato con fondi pubblici sotto la voce “altre spese” diretti alla villa in costa Smeralda intestata al cugino del presidente della giunta.
La notte del 24 agosto si udì una forte esplosione e tutti temettero che fosse giunta la fine. Le madri abbracciarono i figli, le mogli i mariti, i single i propri animali domestici.
Con grande sorpresa di tutti nel cielo sopra al vulcano comparve una scritta luminosa con scritto “GRAZIE GENOVA” e solo allora si capì l’intera faccenda.
Una multinazionale russa con la partecipazione di capitali cinesi aveva creato il finto vulcano per mezzo di una gigantesca trivella sotterranea. Lo scopo era stato quello di registrare durante quei giorni oltre cinquanta puntate di un reality show intitolato “2014 d.C. All’ombra del Vulcano”. Era stata scelta l’Italia perché qui, data l’assenza di controlli, si sarebbero incontrate meno difficoltà nella realizzazione di questo progetto senza precedenti e non ci sarebbe stato il rischio di reazioni della cittadinanza che dimostrava da anni di avere statisticamente il più alto tasso di remissività e di sopportazione mondiale. La città venne risarcita per i danni e quindici modelle russe furono offerte in dono dai vertici della multinazionale e impiegate come equipaggio del venticinque metri dell’assessore.
Le storie vere filmate durante quei giorni fecero piangere, ridere e sognare milioni di telespettatori.
Il programma fu un successo mondiale senza precedenti e fu tradotto in quaranta lingue compreso lo Swahili e l’italiano.