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Capirai, voglio crederlo, che mutando
ogni segno che fa le tue mani diverse
da ogni altra mano, tutto ciò
che è necessario mutare, alla fine,
diverrebbero mani come le altre
le tue belle mani.
E tolti, e non sempre, certi brividi
involontari sulla fine di urinare, il lento
immancabile montare di una felicità
quasi intestinale allo snodarsi
in sedici millimetri di un piano
sequenza in bianco e nero, eliminata
qualche propensione al canto, all’uggia
e una disposizione al sonno durante
l’uffizio vespertino della morte in vita,
espunto questo e poco più, non resterebbe
nulla tra me e l’altro accanto
che riempie il tempo tra il nascere e il morire
del solito ritrito amore muto.
E allora considera come non siano nulla
le tue leggi, i tuoi denominatori, i ricorsi
che vedi, inesistenti, per placare
l’imprevisto, le misere bussole di legno
con cui ti raccapezzi tra i paraventi
disposti per velare una complessità
che non può avere cura.
Tutto è dentro il mutandis che ti sforzi
di mutare perché ti guidi al noto
e immutato invece ti trascina al largo
dove niente si può più comparare e tutto
avviene per la prima volta agli occhi tuoi
ostinati a quel copione dove, lo capirai,
quel che succede non starà scritto mai.